I Ragazzi di Piazza Stazione : DA PIAZZA STAZIONE ALL’HEYSEL PARLA NINO COGLIANDRO

Fin lì era stata un marcia trionfale. La “Vecchia Signora” (la Juventus) aveva sbaragliato di brutto le avversarie plurititolate che il sorteggio le aveva destinato di fronte. Tutti sapevamo che questa era l’annata buona dopo tante delusioni.

Due volte eravamo arrivati in finale e due volte avevamo perso miserevolmente per un golletto a zero, sia con l’Aiax che con l’Amburgo.

Quest’anno no! Quest’anno eravamo i migliori d’Europa e forse anche del mondo: avevamo in squadra ben sette campioni dell’82 e in più Boniek e Platinì, e scusate se è poco.

Alle semifinali ci era toccato il Bordeaux, squadra tosta da non tenersi nel buggino (taschino); ma a Torino l’avevamo umiliata con un secco tre a zero. La trasferta di ritorno in Francia sarebbe stata una passeggiata. Eravamo in finale e questa volta non l’avremmo persa.

A Bordeaux però la Juve, forse troppo sicura, forse avendo sottovalutato gli avversari o credendoli già rassegnati, si mise a giocherellare per salvare gambe e risultato: per qualificarsi avrebbero dovuto segnarci quattro reti e noi nessuna, e quando mai.

Eravamo pigiati quella sera dinanzi al televisore nella nostra sede di Roccella “Bontrap”, cioè dedicata al magico duo Boniperti-Trapattoni.

Man mano che trascorrevano i minuti, quella che pensavamo dovesse essere una pratica già chiusa, diventò una salita impervia e ingarbugliata.

I Francesi ci credevano, caricati al massimo, giocavano di prima e sbucavano da tutte le parti, sostenuti da un tifo infernale, ininterrotto,  coinvolgente.   Scirea,  Gentile,  Cabrini, Brio e gli altri avevano un bel da fare a tappare i buchi e a spedire affannosamente in corner.

Peppe Guarneri ‘i Piccinna

Peppe Guarneri ‘i Piccinna

Totou ‘i Lariantoni

Totou ‘i Lariantoni

Quando poi, circa al ventesimo, segnarono, divennero furie scatenate.

Capivano la cattiva serata dei nostri e cercavano la qualificazione, che appariva loro a portata di mano.

Finì il primo tempo e noi eravamo sudati, ma ancora speranzosi: vedrai che adesso cambia musica, ci penseranno, si assesteranno con più convinzione e vedremo la nostra solita Juve schiacciasassi.

Invece tutto continuò sul copione del primo tempo: loro a premere e noi in affanno.

Passavano i minuti e tutti gli sguardi indugiavano su quelle lancette di una lentezza esasperante.

Alla mezz’ora segnarono di nuovo con un tiro da lontano che incocciò l’incrocio, lasciando Tacconi esterrefatto senza aver visto neanche la palla. Ora il purgatorio di prima divenne inferno vero.

Se prima c’era la speranza di qualche contropiede, adesso tutti i nostri erano barricati in difesa, liberando alla disperata.

Tacconi a cinque minuti dal termine salvò il risultato con una parata miracolosa.

Negli ultimi minuti sembrava l’assalto a Forte Alamo: meno quattro, meno tre, meno due, meno uno …… Fineee!

Saltammo in piedi dopo tanta tensione, uscimmo con le macchine a carosello sventolando impazziti le nostre bandiere in faccia ai Milanisti e Interisti che, dopo le nostre finali perse erano usciti a festeggiare: per anni sul muro della segheria campeggiò la scritta: GRAZIE AMBURGO. Vigliacchi!

Ora tutti a Bruxelles! Il Liverpool? Ne faremo polpette. La finale vera era stata questa col Bordeaux, veramente duro a morire. E chi sarà mai questo Liverpool?

Immediatamente nei giorni a seguire contattammo Torino per prenotare i biglietti per Bruxelles.   Eravamo prima  in  dodici, poi in trenta, quindi in sessanta e forse altri se ne sarebbero aggiunti.

La risposta arrivò via fax,  rapida e concisa: data l’enorme richiesta di biglietti da parte dei clubs periferici, ad ognuno di essi potevano essere assegnati soltanto dieci biglietti.

Io allora ero nel direttivo e, quindi, non avrei avuto problemi ad andare, ma con me volevano partire Stefano Romeo, mio zio coetaneo e Tonino Caridi, inseparabili e volevamo godere assieme, fianco a fianco quest’avventura, non in settori separati. Rinunciai e ci rivolgemmo a un’Agenzia di Milano per tre biglietti, dove saremmo arrivati in treno, poi in pullman fino a Bruxelles.

La partita era fissata per il 29 maggio alle 20.15.

Il 27, coperti di sciarpe, bandiere e gagliardetti, pavesati a festa come tanti alberi di Natale, eravamo in stazione.

Il treno arrivò alle 14.30, già sventolante di bandiere. Man mano lungo le Stazioni della Jonica salivano altri gruppi: ci abbracciavamo e ci salutavamo solidali. Da Lamezia sonnecchiammo un poco e alle 10  di sera fummo a Roma.

Il treno non sostò a Termini, ma alla stazione di passaggio di Roma Casilina. Ci aspettava, malgrado l’ora, un folto gruppo di sciagurati tifosi romanisti e forse anche laziali, coalizzati per l’occasione, ma frenati da un cospicuo reparto di poliziotti.

Non ci furono incidenti, ma per tutti i dieci minuti della sosta, dovemmo sorbirci l’odiosa canzone che da poco circolava contro di noi:

O Maggissè!               (O Magissè!)

O Magginì!                 (O Magginì!)

Volemo morto a Platinì,

mortò Scirea, mortò Cabrini,

volemo morti i Juventini.

 

Noi ci chiudemmo e abbassammo le tapparelle per paura di qualche sassata, ma appena il treno si mise in moto, aprimmo tutti insieme simultaneamente i finestrini e gli misurammo il braccio.

Stefano fece di meglio: si aggrappò ai ferri delle cuccette, si calò i pantaloni ed esibì il nudo deretano a ripago delle offese.

Mattina del 28 fummo a Milano. Facemmo colazione in un bar della Stazione e poi caracollammo con calma verso l’Agenzia, ritirammo i biglietti e fummo liberi fino alle 17.

Visitammo il Centro, mangiammo in un alberghetto con giardino e riposammo poche ore in una stanza a tre.

All’ora convenuta eravamo in Agenzia e alle 17.30 partimmo per Bruxelles, juventini di Milano, di Bergamo, di Udine, Pugliesi, Siciliani, Sardi, di tutta l’Italia. Viaggiammo di notte cantando i nostri cori e alla mattina di quel fatidico 29 maggio fummo a Bruxelles.

Scendemmo alla Stazione Autobus in una piazza centrale: ancora era troppo presto per andare allo Stadio. Ci saremmo visti, dopo la partita, alla fermata N° 72.

Avevamo tutta la giornata davanti: Bruxelles, a noi!

Qui la prima delusione. Pensavamo di trovare una città in festa per il grande evento sportivo, su cui erano puntati gli occhi dell’Europa e del mondo intero: bandiere delle due squadre, delle due nazioni finaliste … Nulla.

Chiedemmo anzi dove fosse lo stadio Heysel e molti non ce lo seppero indicare, poi Stefano ricordò di aver letto che era in prossimità dell’Atomium e così fu più facile individuare la direzione.

Facemmo colazione in un locale italiano, da un simpatico ragazzo di Caserta, e quindi, senza fretta, lentamente, prendemmo la strada dell’Heysel. In una piazzetta laterale, improvviso e inaspettato ci schiaffeggiò un cartello: NOI ODIAMO I NEGRI E GLI ITALIANI.

Era appeso tra due finestre fiorite, visibilissimo sia dalla strada che dalla piazzetta. Di sotto un Bar-Tabaccheria, una Chiesa Valdese, un Pronto Soccorso Veterinario,  una  Lavanderia chiusa.

La gente passava indifferente senza un commento, un moto di attenzione.

─ A cchjappamma a vacca…..! (L’abbiamo acchiappata la vacca… − (dai testicoli))─ Sbottò Stefano.

─ E chista ‘ndavarria u m’esti a Capitali d’Europa? ─ (E questa dovrebbe essere la capitale d’Europa? ) Aggiunsi io.

E Nino concludendo: ─ ‘Viti vui quali ‘ntinna ‘nd‘arriva i ‘ssa campana… ─ (Vedete voi quali rintocchi ci giungono da questa campana… )

Restammo ancora a guardare quello sconcio e proseguimmo in silenzio, ancora increduli.

Verso le undici cominciammo a vedere i primi Inglesi.

Eravamo entrati in un negozietto di ricordi per trovare qualcosa per le nostre mamme, quando li vedemmo entrare.

Ci irrigidimmo subito, pensando a quel che avevano combinato appena qualche settimana prima a Stradford.

Appena ci videro ci circondarono sorridenti e, con grandi manate sulle spalle, ci invitarono a gesti a scambiare qualcosa.

Gli demmo due gagliardetti e una sciarpa e loro ci regalarono una bandiera senza manico e una maglia col N° 8.

Vollero anche scattare con noi delle foto ricordo e ci mettemmo in posa, a bandiere invertite, dinanzi all’autoscatto.

Proseguimmo. Mentre bevevamo una coca su una panchina, arrivò un altro gruppo, questo molto più numeroso, saranno stati una ventina e tutti giovani.

Gelammo. Loro richiesero a gesti i nostri simboli, proponendo il medesimo scambio e posammo anche per la solita foto, ma quelli insaccarono le nostre cose, ci fecero un gestaccio e se ne andarono sghignazzando e tracannando birra, in bottigliette

da tre quarti.

─ E ndi jiu puru bona – Sussurrai – Ma mo ‘ndavanzi ‘ndavimu u stamu c’a ricchji i fora com’o Sdragu! ─ (E ci è andata anche bene. Ma d’ora innanzi dovremo stare con le orecchie attente come quelle dell’Orco )

E gli altri non poterono che approvare, seri e preoccupati.

Era suppergiù mezzogiorno quando arrivammo all’Heysel.

Ci aspettavamo uno stadio moderno, degno di tanta manifestazione, ma fu un’altra delusione: vecchio, squallido, cadente e mal rattoppato sembrava ‘mpingiutu c’a sputazza (appiccicato con lo sputo). Gli ingressi erano più da pollaio che da campo sportivo, stretti e bassi.

Certamente i Belgi avevano cercato di rimediare in fretta per renderlo un po’ presentabile. C’era infatti a lato un cantiere da poco dismesso, sopra un montarozzo, anzi palesemente abbandonato in fretta poiché notammo, ammonticchiati alla rinfusa, materiali di scarto, sia in legno che in mattoni e financo in ferro.

Molta della gioia iniziale cominciò a mutarsi in preoccupazione.

E se quei materiali li avessero adocchiati gli hooligans?

Comunque non era problema nostro: ci avranno pensato le forze dell’ordine e avranno provveduto a parare il pericolo a tempo e modo.

Il piazzale dinanzi allo stadio era quasi deserto. Era tutto chiuso per la pausa pranzo.

Comunque uno spazzino ritardatario ci informò, a gesti, che le biglietterie avrebbero aperto alle 15 e i cancelli alle 17.30.

Stefano, il miglior mimo dei tre, fece prima il gesto del mangiare e poi mostrò un gagliardetto tricolore e quello, sorridendo ci indicò una strada oltre l’Atomium, ci fece il segno della svolta a destra e mimò  il  numero  500.   Credemmo di capire

che il Ristorante italiano si trovava a 500 metri per quella strada, in una traversa laterale.

Ci avviammo e dopo venti minuti fummo dinanzi  al  “Cuore Italiano”.

Entrammo e ci accomodammo sotto una spaziosa veranda con vista di uno spicchio di Atomium. Alle pareti, foto dei proprietari con varie personalità italiane: Claudio Villa, Modugno, la Pavone e Teddy Reno, Aurelio Fierro, Mino Reitano ed altri.

Venne al tavolo un giovane di circa vent’anni.

− Di dove siete? – Ci domandò cordiale, ansioso di parlare con Italiani.

─ Calabresi ─ Rispose Nino.

─ Calabrisi? E ‘i duvi? ─ (Calabresi? E di dove? ) Riprese il giovane illuminandosi tutto e accomodandosi sulla quarta sedia.

─ D’a provincia i Riggiu ─ (− Dalla Provincia di Reggio ) Aggiunsi io.

─ Sapiti i duvi sugnu eu? ‘I Condofuri! ─ (Sapete di dove sono io? Di Condofuri! )

─ E nui d’a Rucceja ─ (E noi di Roccella ) Completò Stefano e ci alzammo abbracciandoci e presentandoci.

─ E mo cu’ si movi i ccà. Sapiti i quant’anni ‘ndavi chi non sentu parrari u dialettu? Quattr’anni! Ginu! ‘Ndavimu Calabrisi ccà, d’a Rucceja! ─ (E ora chi si muove da qui. Sapete da quanti anni non sento parlare il dialetto? Quattro anni! Gino, abbiamo calabresi qua, di Roccella! )

Poi si rivolse a due ragazze in francese e capimmo che lasciava ad esse i compiti di bottega per potersi dedicare soltanto a noi.

Arrivò Gino, più grande, con un sorriso largo d’a Dogana o Cafuni .

Ci abbracciò, sapemmo tutto di loro.

Per primo, nel ’62, era arrivato il padre e s’era messo a

fare il cameriere. Poi chiamò la famiglia e arrivarono i due fratelli e la madre.

Anche loro due si misero a lavorare nella ristorazione e la madre in una lavanderia.

Alla morte del proprietario avevano rilevato il locale, prima in affitto e poi lo avevano comprato dagli eredi, dandogli nome e aspetto tipico. Degli affari non si potevano lamentare.

─ I biglietti i ‘ndaviti? ─ (I biglietti ce li avete?) Ci chiese a un tratto Marcello.

─ Si, i ‘ndavimu ─ (Si! Ce li abbiamo) lo informammo.

─ Assati m’i viju, ca ccà circolannu ‘nu ‘mbujinu i biglietti farzi ─ (− Fatemeli vedere chè qui circola un fottìo di biglietti falsi )

Aprii il borsone e li trassi dal portafoglio, porgendoglieli.

Avutoli in mano approvò, poi li girò sul retro e ci invitò a guardare.

C’era una scritta in caratteri piccoli, naturalmente in francese.

Ce la tradusse. Apprendemmo solo adesso che la U.E.F.A., proprio per questo incontro, per la Finale, si toglieva da ogni responsabilità, quasi presagisse il futuro, delegandola agli organizzatori locali.

Mai successo prima.

Entrò intanto un gruppetto di Italiani, quattro ragazzi e due ragazze.

─ Ci servono due biglietti del settore N. Sapete dove possiamo comprarli? ─

─ Ce li ho io i biglietti! ─ Saltò su Marcello, scattando come una molla, e trasse di tasca un mazzo di venti, venticinque biglietti:

─ Settore N? Eccoli! ─ E li consegnò al richiedente.

Sapemmo così che il nostro nuovo amico, Marcello Spataro di Condofuri, faceva il bagarino.

Tornò al nostro tavolo, questa volta in forma ufficiale, con tanto di taccuino e matita:

─ Allura, paisà, chi vi preparamu? ─ (Allora, paesani, cosa vi prepariamo? )

─ Certu ca non vínnimu ccà u ndi mangiamu i schifezzi loru, sinnò jemu a ‘nu Ristoranti qualsiasi ─ (Certamente che non siamo capitati qua per mangiare le loro schifezze, altrimenti saremmo andati in un Ristorante qualsiasi ) esclamò Nino convinto e interpretando il pensiero di tutti.

─ Ma vui u voliti ‘nu pocu i stoccu bonu, ma stoccu speciali d’a Lettonia?! ─ (Ma voi lo volete un po’ di stocco buono, ma speciale della Lettonia?! )

─ A la midò ─ scattò su Stefano ─ ca cu’ penzava ca ‘ndavia u vegnu a Brusselli pemm’u mi mangiu u stoccu bonu! ─ (Per la miseria, chi pensava di venire a Bruxelles per assaggiare un po’ di stocco buono )

─ Voliti puru ddu’ fila i pasta? ─ (Volete anche due fili di pasta? )

─ No, no, Marcè, facimu ‘na cosa leggera: pórtandi ddu’ assaggini i tuttu u stoccu chi ‘ndai e basta. Sinnò nd’abbuffamu e ndi pigghja a sonnolenza.─ (No, no, Marcello, facciamo una cosa leggera: portaci due assaggini di tutto lo stocco che hai e basta. Altrimenti ci abbuffiamo e ci prende la sonnolenza )

─ Comu vuliti ─ rispose l’amico ─ però ‘na buttigghja i vinu v’a offru eu, e si mi permettiti, vegnu u mangiu cu vui, accussì continuamu u discurzu ─ (Come volete, però vi offro una bottiglia di vino e, se permettete, mangio con voi così continuiamo il discorso )

─ Quale onore? ─ Rispose Nino Caridi, sfottendo serio.

E così mangiammo e bevemmo l’ottimo vino offertoci da Marcello, il caffè e poi restammo a chiacchierare. Si erano fatte le 16.30.

─ Ma u Stadiu u vidístivu? ─ (– Ma lo stadio l’avete visto? )

Tornò l’amico sull’argomento principale.

─ U víttimu ─ gli risposi sconsolato ─ ma mi pari ca staci a jirta p’e scummissa ─ (L’abbiamo visto, ma sembra stia in piedi per scommessa )

─ Ma cu’ cávulu u scegghjiu ‘stu scatorciu pe’ ‘na finali i Coppa d’i Campioni? ─ (Ma chi cavolo ha scelto un simile scatorcio per una finale di Coppa dei Campioni?)

─ Veramenti ndi meravigghjamma puru nui ─ (Veramente ce lo siamo chiesto anche noi )

─ Possíbili ca non trovaru n’attru megghju i chistu ‘nta tutta l’Europa? Speriamo nommu u succedi nenti i bruttu …. ─ (Possibile che non ne abbiano trovato un altro migliore in Europa? Speriamo non succeda niente di brutto…)

Paventai io.

─ No, no! Supa a chistu potiti stari sicuri ca a Polizia da ccà ‘on esti comu a chija italiana: ccà cu’ sgarra, paga! ─ (No, no! Su questo potete stare sicuri che la Polizia qui non è come quella italiana: qua se uno sgarra, paga! )

Così ci tranquillizzammo alquanto.

─ Ma vui non veniti ‘a partita? ─ Chiesi. (Ma voi non venite alla partita? )

─ Certu ca venimu, ca ccà tenimu chjusu stasira e domani. Sapiti com’è: ‘on volarria ca pemmu u guadagnamu quattru sordi, ‘ndarrívano vinti ‘mbiachi e ndi scáscianu u locali. Però eu vaju  versu  i  cincu  e  menza  pemm’u  mi  vindu  i  biglietti ─ (Certo che veniamo, ché teniamo chiuso stasera e domani. Sapete com’è: non vorrei che per guadagnare quattro soldi mi piombassero qui una ventina di ubriachi e mi mettessero a soqquadro tutto il locale. Io vado verso le cinque e mezza per  vendere i biglietti )

─ A quantu i vindi? ─  (A quanto li vendi?) Chiese Nino

─ Dipendi di l’ura: cchju passa u tempu e cchju nchjana u prezzu ─ (dall’ora: più passa il tempo e più sale il prezzo).

─ Allura è megghju u ndi movimu  ─ (Allora è meglio che ci muoviamo)   E  ci  alzammo,  pa-gammo meno del dovuto, raccogliemmo i nostri borsoni, salutammo Gino e ci dirigemmo all’Heysel. Giungemmo verso le cinque.

Marcello fece il giro delle biglietterie, evidentemente conosceva qualcuno, per sapere quanti biglietti restavano ancora in vendita.

─ Sulu ottucentu. E poi attaccamu nui e d’i ‘Ngrisi ‘nci facimu barva e capiji. A propósitu, ‘nto settori Z éranu previsti ottomila biglietti, ma nda vindiru dudicimila. Accussì stati cchju cardi ─ (Solo ottocento. E poi attacchiamo noi e agli inglesi ci facciamo barba e capelli. A proposito, nel settore Z erano previsti ottomila biglietti, ma ne hanno venduto dodicimila. Così state più caldi )

Ancora le porte d’ingresso (porticeji i pagghjaru) come le definì Stefano, erano chiuse.

Rimanemmo ancora insieme una mezz’oretta, poi ci scambiammo indirizzo e numero di telefono e ci separammo, così appena aprirono, fummo tra i primi.

Entrammo in un corridoio stretto dove a malapena si poteva procedere in due. Qui la polizia ci fermò e ci sottopose a una minuziosa perquisizione: dovemmo aprire le borse, esibire i documenti, presentare i biglietti che furono guardati, controllati e scrutati da almeno quattro persone, svuotammo finanche le tasche e finalmente fummo dentro.

Il corridoio si apriva all’aria in alti e stretti cunei che terminavano quasi a ridosso del terreno di gioco. Ancora c’era pochissimo pubblico e noi risalimmo e ci sistemammo nella curva, all’ombra del muro di cinta. Ci guardammo attorno. Il settore era stato diviso in due da una rete posticcia: le gradinate erano state costruite in mattoni pieni, anticamente ricoperti da due dita di cemento, che però, col tempo si era invecchiato, sgretolato e lasciava lugubremente vedere i mattoni.

Nell’altro settore, al di là della rete, notammo un’ampia breccia nel muro, proprio a ridosso del cantiere dismesso. A guardia di questa era stato messo un poliziotto in piedi. Guardammo l’altra curva, il settore N, lontanissimo, dove sarebbero arrivati gli amici della sezione: Vittorio Grollino, Arturo Arena, Pino Badolato e gli altri. Chissà se erano arrivati?

Alcuni giovani stavano trafficando per sistemare uno striscione sulla rete divisoria, dalla parte nostra. Finalmente leggemmo: DOVE VA LA JUVE C’E’ PINEROLO. Evidentemente speravano in qualche zummata televisiva.

Il sole stava man mano calando e cominciarono ad arrivare i primi Inglesi e a prendere posizione al di là del divisorio nel settore adiacente. Non vedemmo gente strana ma soltanto ragazzi, ragazze e anche intere famigliole.

Verso le sette lo Stadio era già quasi pieno e la gente affluiva sempre più numerosa dagli stretti cunicoli d’ingresso.

Mezz’ora dopo notammo, nel settore vicino, numerosi gruppi di tifosi con tatuaggi, teste rasate e immancabili casse di birra in spalla. Molti penetravano indisturbati attraverso la breccia. Avevano anche sistemato una passerella con tavoloni, per maggior comodità.

Del poliziotto di guardia nessuna traccia.

Guardavamo preoccupati una lenta ma inesorabile manovra di avvicinamento verso la rete. Le famigliole e i ragazzi erano costretti a spostarsi verso l’altra estremità della curva, finchè non vedemmo al di là della rete che giubotti neri e smanicati,  teste rasate e torsi nudi fittamente tatuati.

Mancava ancora mezz’ora all’inizio della partita quando alcuni di loro si misero a tagliare i legacci dello striscione di Pinerolo, che si afflosciò a terra vicino alla rete.

I ragazzi si avvicinarono per recuperarlo, ma gli Inglesi, sghignazzando, tirarono fuori le pistole lanciarazzo e cominciarono a sparare per colpirli, prima su di loro, poi alzarono il tiro sulla folla.

Nino Cogliandro oggi

Nino Cogliandro oggi

 

Biglietto per la partita Juventus-Liverpool fronte (in alto) e re-tro

Biglietto per la partita Juventus-Liverpool fronte (in alto) e re-tro

I ragazzi di Pinerolo ripiegarono terrorizzati, qualcuno colpito

alle spalle e con la camicia in fiamme. Noi tutti ci alzammo in piedi e ci spostammo caoticamente verso il muro, cercando di interporre il maggior spazio possibile.

Questo terrore fece scattare in loro,  ormai  ottenebrati dall’alcool e forse dalle droghe, l’istinto predatorio. Intuirono che non eravamo Ultras e si gettarono in forza a svellere l’esile rete divisoria che venne staccata di netto, offrendogli anche i terribili, puntuti paletti in ferro che usarono come giavellotti.

Ora il terrore divenne panico incontrollato. Dato che in alto non c’erano vie d’uscita, la folla tentò la salvezza verso il campo. Molti caddero in questa fuga scomposta e disperata e furono calpestati a morte. Gli stretti cunicoli d’entrata erano intasati dagli ignari che in massa stavano entrando.

Quelli che arrivarono sotto la rete del campo si dettero a gridare aiuto e a cercare di sbloccarla e svellere il cancello  d’ingresso, ma la rete sì che era stata messa  bene,  con  doppi

tubi e un muretto ad altezza d’uomo. La Polizia a cavallo dentro il terreno di gioco, pensando forse a un gratuito tentativo d’invasione, si dispose in formazione e si diede a dar manganellate furibonde sulle mani dei malcapitati che cercarono di tornare indietro in massa.

Allora avvenne quello che poi fu chiamato “effetto dentifricio”: dall’alto premeva la massa che cercava con ogni mezzo di sfuggire alla furia degli hooligans, dal basso arrivavano quelli che venivano picchiati dalla Polizia, insieme ad altri che entravano dai cunei e noi al centro ci sentimmo sbalzare in aria in una grande onda umana la cui cima debordò oltre la rete di protezione del Campo.

Il centro dell’onda umana cadde pesantemente sulle gradinate in basso, schiacciando col proprio peso i malcapitati delle prime file.

Io, quando mi sentii lanciato verso l’alto  e  stavo perdendo contatto col terreno, annaspai disperatamente intorno con le mani alla ricerca di qualsiasi appiglio.

Trovai con la destra la cinta d’un pantalone e mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Il proprietario, terrorizzato come o forse più di me, scalciava e tirava pugni alla cieca sulle mani, sulle braccia, sulla testa …

Comunque volammo e ci staccammo, ma ormai eravamo sulla coda dell’onda. Precipitai di peso per sette o otto gradini, atterrai su altri corpi e molti mi caddero addosso ma rotolarono in basso.

Mi ritrovai a faccia in aria, la gamba e il braccio destro bloccati da cadaveri, la testa e il corpo che degradavano sui gradini in basso, la gamba sinistra in aria, scalzo e con un solo braccio disponibile.

Respiravo a fatica, avevo perso gli occhiali e le scarpe ed ero costretto ad assistere impotente alla carneficina che si stava consumando in alto. Gli spettatori normali inglesi si erano aggruppati all’estremità del loro settore di curva. I nostri, come pecore impazzite, urlanti e sbranate dai lupi, cercavano una via di salvezza che non c’era e premevano disperati contro il muro di cinta.

Chi cadeva sui gradini o scivolava o non resisteva, veniva calpestato e schiacciato dalla folla terrorizzata.

Quelli agivano con la freddezza di un plotone di esecuzione.

Guidati dall’alto dai loro caporali, si erano divisi in squadre perfettamente organizzate: alcuni svellevano facilmente i mattoni delle gradinate, li spezzavano a mezzo e ne facevano piramidi. Gli assassini arrivavano con calma esasperante, bevendo birra, si armavano e poi avanzavano a balzi in sette o otto nello spazio mediano, prendevano comodamente la mira e lanciavano con forza mattoni, bottiglie, ferri acuminati contro teste, spalle e braccia per colpire, per uccidere.

Alcuni inseguivano l’ultima frangia di fuggiaschi con coltelli e bottiglie sbrecciate e li dilaniavano ridendo e sghignazzando.

Il sangue scorreva dappertutto lungo le gradinate.

Ad un tratto vidi un’ombra oscurare l’ultima luce e mi cadde addosso un ragazzino di dieci, undici anni, con la maglia bianconera e la testa spaccata in due, mi venne proprio faccia contro faccia e mi morì addosso, inondandomi di sangue e materia cerebrale.

Pazzo di terrore, di raccapriccio, di orrore e di voglia di salvezza, me ne liberai col braccio buono, poi mi detti a muovermi come un ossesso per liberare l’altro braccio inchiodato da un morto con la sciarpa sociale ancora annodata. Riuscii a furia di torsioni disperate a farlo rotolare giù in basso. Da sotto il cadavere rimosso, vidi brancolare debolmente una mano di giovane donna. L’afferrai e la strinsi, impotente ad aiutare

lei e me. Sentivo la vita abbandonare quella ignota ragazza e lacrime di rabbia e di frustrazione mi rigarono il viso imbrattato di sangue, finchè non si mosse più. Mi detti a divincolarmi con più forza, quando udii una voce di paradiso che gridava attraverso il megafono:

─ Calmi! E’ finita! E’ finita! ─

Guardai in su e vidi due file di poliziotti, perfettamente equipaggiati in tenuta antisommossa, che sostituivano la rete caduta e si interponevano in doppia fila tra i due settori, tra le vittime e gli assassini.

Questi, quieti come agnellini, angelici e impuniti, si erano seduti sulle gradinate e si accingevano, protetti e sicuri, a godersi la partita.

Dall’altra parte vidi luce e spazio attraverso la miopia che mi annebbiava la vista. Mi divincolai e mi liberai del tutto.

Avanzai prima a carponi e poi barcollante su un lago di sangue e tra mille ingombri di feriti, morti, sacchi, bandiere raggiunsi la luce e capii che era una breccia nel muro. Ci arrivai e stavo per cadere di sotto quando un poliziotto mi sostenne, mi prese in braccio e mi portò giù. Scattavano frenetici i flash dei cronisti e fu così che la mia foto in braccio al poliziotto,  campeggiò il giorno dopo su tutti i giornali del mondo, a simbolo e ricordo della tragedia insensata e impensabile di quel 29 maggio.

Svenni per un po’, così mi risparmiai la vista delle macerie con morti accatastati a lato, schiacciati nella caduta del muro, crollato addosso a quelli che ancora tentavano di entrare.

Mi svegliai nell’ambulanza. Grida inenarrabili di dolore provenivano dal lettino accanto. Mi girai e vidi una donna con uno di quei giavellotti confitto nel petto. La poverina cercava con tutte le proprie forze di svellerlo, ma gli infermieri glielo impedivano: sarebbe morta all’istante di emorragia.

Sentivo avanti e dietro di me l’urlìo ossessivo delle ambulanze che andavano e venivano frenetiche. Sfrecciavamo per le vie della città che si stava già illuminando. Giungemmo a un Pronto Soccorso.

Immediatamente alcuni barellieri, pronti all’arrivo, ci sistemarono nelle portantine e ci internarono.

Heysel: l’ecatombe

Heysel: l’ecatombe

Heysel: l’ecatombe

Heysel: l’ecatombe

Sentii l’ambulanza, appena vuota, ripartire sgommando. Fui visitato da un dottorino ma, a cenni, gli feci capire che il sangue di cui ero coperto non era mio. Volevano che firmassi il registro di ricovero, ma rifiutai.

Avevo ben altro da fare. Che ne era stato di Stefano e Nino Caridi? Eravamo fianco a fianco e un attimo dopo ci eravamo persi. Dovevo trovarli. Ero scalzo e una buona donna di infermiera mi dette delle buste di plastica e del cerotto, così me le applicai ai piedi.

Chiesi all’accettazione notizie sui due amici: controllarono il registro e sbatterono la testa in segno di diniego. Mi appostai all’entrata e sorvegliavo l’arrivo delle ambulanze. Ne arrivò una, la sentii urlare già da lontano. Ne scesero un uomo con la camicia tutta insanguinata che si teneva la tempia e un altro ferito su una barella con un ventre gonfio, spropositato. Lo aprirono lì, nel corridoio e ci schiaffeggiò un fetore orripilante di feci, urine e sangue che sprizzarono dappertutto imbrattando gli infermieri.

Io e l’uomo in piedi corremmo fuori e rovesciammo l’anima.

─ Bedda matri ─  mi disse l’altro, appena ci fummo ripresi      ─ allura a mia mi jiu bona daveru!? ─ (Bella madre, allora a me è andata davvero bene ) E si tolse la mano dalla testa, aprì e mi mostrò il padiglione auricolare tranciato di netto da una coltellata. Lo ricoverarono e rimasi solo. Per due ore scrutai i feriti che man mano arrivavano: dovevo curvarmi sui visi per cercare di conoscerne le fattezze senza l’aiuto degli occhiali.

Verso mezzanotte arrivò quella che ritenni l’ultima ambulanza.

Dentro c’era Stefano con una flebo al braccio. Lo abbracciai forte, piangendo e gli chiesi di Nino: non ne sapeva niente.

Accettò il ricovero e ci lasciarono in uno spazio delimitato da un paravento, il meglio che erano riusciti a trovare in quella bolgia confusa e paradossale.

Mi raccontò la sua vicenda. Anch’egli venne sbalzato su dall’onda umana e si trovò ad atterrare dentro il terreno di gioco, sopra altri che si erano infissi o schiacciati contro la rete e i terribili tubi di sostegno (sapemmo dopo che ben sette morirono in questo modo).

Qui gli erano piovuti addosso almeno venti o trenta corpi, dall’altezza di nove o dieci metri.

Ne fu ‘mbunnato (compresso) al punto che lo credettero morto e lo accatastarono tra i cadaveri (e fu proprio nel gruppo dei morti che le telecamere impietose lo ripresero in diretta e fu visto a Roccella. Immaginarsi cosa successe alla Stazione …).

Fu un poliziotto che, sentitolo ansimare, e gli calcò ripetutamente il petto con la pianta dello stivale.

E grazie a questo intervento di alta e qualificata chirurgia, Stefano è vivo e la può raccontare.

Terminata la flebo, volevano applicargliene un’altra ma rifiutammo, firmò l’onnipresente registro e fummo liberi.

Chiesi a gesti a un’infermiera dove potessi ripulirmi alquanto e togliermi di dosso parte di quella sporcizia, di quel puzzore che mi ottenebrava. Lo feci e almeno mi ripulii la faccia.

Per il resto dovevo essere peggio di Robinson: avevo la maglietta insanguinata, una manica pendula, buste di plastica per scarpe e strabuzzavo gli occhi per riconoscere la realtà vicina che vedevo confusa e ottenebrata, mentre pulsazioni dolorose mi stavano aumentando a squassarmi le tempie.

Andammo fuori per fare un bilancio delle risorse.

Avevamo perso i borsoni con dentro portafogli, documenti, macchine fotografiche e abiti di ricambio.

Io mi trovai, nascosti dalla preveggenza di mia madre, in una tasca segreta, un centinaio di dollari. Stefano aveva centocinquantamila lire e alquanti spiccetti.

Sulla strada si fermò una Punto targata CZ.

Ci precipitammo insieme:

─ Paisà, aiutatici! ─ (Paesani, aiutateci! )

Ma quelli dettero gas e partirono a razzo, scomparendo oltre il rettifilo.

Trovammo un infermiere che parlava italiano. Gli chiedemmo dove erano stati portati gli altri feriti e quello ci diede due indirizzi.

Ma prima dovevamo telefonare a casa per rassicurarli. Finora le linee erano state intasatissime ma adesso, alle due e cinque del mattino, forse ce l’avremmo fatta.

Risposero al secondo squillo. Un urlo lacerante e liberatorio mi rintronò dall’altro capo del filo:

─ Ninu! Ninu! E’ vivu! E’ vivu! Grazi Madonna, grazi. E Stefanu, ‘ndai notizi i Stefanu? U víttimu ‘nte morti! … ─ (Nino! Nino! E’ vivo! E’ vivo! Grazie Madonna, grazie. E Stefano, hai notizie di Stefano? L’abbiamo viso tra i morti )

─ Ma quali morti, sbarijástivu? Stefanu è ccà, cu mmia: v’u passu ─ (Ma quali morti? Siete fuori di testa? Stefano è qui con me, ve lo passo! )

Altro urlo e altro pianto liberatorio.

─ E i Ninu, i Ninu Caridi, ‘ndavístivu notizia? ─ (E di Nino, di Nino Caridi, avete notizie? )

─ No, cu iju ‘ndi perdimmi ‘nta chija confusioni, ma appena arbisci jamu m’u cercamu! ─ (No, no, con lui ci perdemmo in quella confusione, ma all’alba ci metteremo a cercarlo )

─ Disgrazia, disgrazia nostra! Mannaja lu palluni e cu’ u ‘mbentau! ─ (Disgrazia! Disgrazia nostra! Maledetto il pallone e chi l’ha inventato!)

Ci facemmo chiamare un radiotaxi e con esso girammo per i Pronto   Soccorso  indicatici;  visitammo,  chiedemmo  e  sbavammo, ma di Nino Caridi non trovammo traccia. Non figurava nell’elenco dei morti, almeno su quello provvisorio e questo ci rassicurò, anche  se  c’erano  molti  cadaveri  ancora sconosciuti.

Ci facemmo portare all’Ambasciata, ma era chiusa e impenetrabile.

Andammo al Consolato. Tutto buio. Suonammo al campanello e nessuno rispondeva. Stavamo per rinunciare, ma l’autista scese deciso, si attaccò al campanello e non lo mollò finchè, come nelle fiabe, si accese una lucina e al balcone apparve un ragazzetto in pigiama.

Chiedemmo di suo padre, il Console. Ci disse che era dal Borgomastro e ancora non era rientrato. Comparve una signora. Non sapevano nulla della tragedia allo stadio. La informammo in poche parole, anche se le nostre condizioni erano più eloquenti di qualsiasi discorso.

Scese ad aprirci. Il tassista ci salutò e partì senza voler essere né pagato, né ringraziato.

Una volta entrati ci fecero accedere in uno stanzone che fungeva da biblioteca.

Soltanto adesso mi accorsi che la gamba destra mi seguiva rigida, con un’angolazione strana e non riuscivo a piegarla.

La moglie del Console si dette a telefonare per rintracciare il marito. Chiedemmo di poter usare il telefono, ma ci disse che era tarato soltanto per comunicazioni di servizio.

Il Console arrivò dopo circa un’ora e con lui entrarono almeno una ventina di altri poveri disgraziati come noi. Ci dettero del tè caldo e qualche biscotto. Io non mi reggevo  in  piedi,  glielo

dissi e mi dettero dei libri per cuscino e nient’altro.

Così tutti quanti, da sfollati e alla rinfusa, ci ‘ngrugnammo (ci addossammo) per terra e ci addormentammo di colpo.

Alle cinque e mezza, appena due ore dopo, fummo svegliati da furiosi scossoni. Nella penombra riconoscemmo Nino Caridi che, per tutta la notte, era andato girovago ai vari Pronto Soccorso, all’Ambasciata Italiana, all’obitorio financo, in cerca di noi.  Per sfortuna aveva visitato  soltanto  due  dei Pronto Soccorso della città: gli era sfuggito proprio il terzo, quello in cui Stefano aveva lasciato traccia del suo ricovero.

Sapemmo la sua vicenda. Egli si era trovato sbalzato sulla cresta dell’onda umana, aveva così superata la rete ed era atterrato sul terreno di gioco addosso ad altri corpi, capriolando poi via senza un graffio. Si era dato quindi da fare insieme ad altri volontari e poi si era messo a cercarci. Ci appartammo in un angolo e rifacemmo il censimento delle nostre risorse: avevamo in tre circa duecentosettantamila lire e duecento dollari.

─ Sentite – propose Stefano ─ appena aiuci e’ dirría u tornamu ‘o Stadiu u ndi cercamu i burzi, i portafogghi, i documenti … o sunnu ja o ‘ncarcunu ‘ndeppi m’i pigghja ─ (Sentite, appena farà giorno, io direi di tornare allo stadio a cercare le borse coi portafogli e documenti… O sono lì o qualcuno li avrà raccolti )

─ Certu – risposi io – però no a pedi, si ndi movimu pigghjamu u taxi, chiju chi custa custa, ca eu cu ‘sta gamba ‘on mi fidu u caminu ─ (Certo, però se dobbiamo andare lo faremo in taxi, quel che costa costa, perché con questa gamba non riesco a camminare )

─ Ma tu telefonasti a casa? ─ (Ma tu hai telefonato a casa? ) Chiese Stefano a Nino.

─ E chi ‘ndavia u teléfunu? E si mi domandávanu i vui chi ‘ndavia u ‘nci dicu: ca non sapia s’éravu vivi o morti? ─ (E cosa dovevo telefonare?  E se mi chiedevano di voi cosa avrei detto? Che non sapevo se eravate vivi o morti? )

─ Allura appena ‘ndi movimu da ccà a prima cosa esti u trovamu ‘nu teléfunu ─ (Allora appena ci saremo mossi di qua la prima cosa sarà trovare un telefono )

Così uscimmo. Sotto trovammo un bar-latteria aperto, facemmo colazione e Nino potè telefonare a casa. Sapemmo così ca Mimmu u Ccippu aveva visto Stefano caricato sull’ambulanza e Gianni U Marocchino me addosso al poliziotto. Alle sette fummo all’Heysel, penetrammo attraverso la breccia, io spintovi a forza di braccia e fummo sulla zona del disastro: sangue, mattoni, lattine e bottiglie dappertutto, vetri in frantumi, ma delle nostre borse e quelle degli altri, nessuna traccia.

Aspettammo che giungesse qualcuno.

I primi ad arrivare furono i giornalisti. Ci chiesero di metterci in posa con addosso qualche bandiera raccattata. Io e Nino rifiutammo, ma Stefano, con una sciarpa e una bandiera, si mise in posa in mezzo a quello sfasciume e fu questa la foto che campeggiò sulle prime pagine  del giorno dopo in tutti i giornali.

Ci dissero che le borse e quanto di valore era stato ritrovato, si trovava presso la Gendarmeria di quartiere.

Ci andammo sempre in taxi, ma da qui ci mandarono da un’altra vicina dove negarono di aver preso niente.

Capimmo che gli avvoltoi si erano spartite le nostre cose.

Se l’erano giocate a dadi come la tunica di Cristo?

─ Ma u númeru i Marcellu v’u ricordati? ─ (− Ma il numero di Marcello, ve lo ricordate? )

Chiese Nino. Nessuno lo ricordava e l’appunto era rimasto nel mio portafoglio, dentro la borsa.

─ O Ristoranti è inutili u jamu, tantu oji ndi dissi ca era chjusu. ─ (Al ristorante è inutile andare, tanto ci ha detto che oggi avrebbero chiuso)

E accantonammo anche quest’ultima speranza d’aiuto.

Ormai qui non avevamo nulla da fare. Ci facemmo portare alla Stazione e trovammo altri scampati che vi avevano trascorsa la notte.

Sapemmo così che gli assassini erano arrivati scortati dalla Polizia, in doppia fila, li avevano messi sul treno e a quest’ora navigavano felici e impuniti sulla Manica.

Ben trentotto erano stati i morti e più di duecento i feriti. Uno di essi non uscì più dal coma e così si arrivò ai definitivi trentanove.

Alla biglietteria chiedemmo tre biglietti per Milano.

Orbene, finora a gesti ci eravamo fatti capire da tutti. Questo bigliettaio belga, però, sembrava un tontolone, con gli occhiali sul naso, la bocca aperta e il naso rosso e rubizzo, ci guardava da ebete.

E noi a mostrare le tre dita e a urlare: Milàn, Milàn, Milàn!

─ Chistu è ‘mbiacu tostu ─ (Questo è ubriaco tosto! ) Commentò Nino sconsolato e la gente premeva dietro.

Eravamo stanchi, inebetiti, delusi e quest’ultimo ostacolo ci portò a un pianto stizzito di rabbia e disperazione.

Finalmente l’ometto armeggiò con le sue macchinette e ci fece vedere, attraverso il vetro, gli agognati biglietti.

Ora però non capivamo il prezzo e avemmo la strampalata idea di mettere tutti i nostri soldi nella conca girevole, sia le lire che i dollari. Quello contò il denaro, abbassò una tendina di similpelle, si prese  tutti i soldi e semplicemente scomparve.

Ci guardammo increduli, frustrati, ormai incapaci di sopportare oltre, per cui prendemmo i biglietti, salimmo sull’agognato treno e partimmo dal civilissimo Belgio, il cuore della nuova Europa.

Arrivammo a Milano e dovevo essere sorretto dai due: il ginocchio si era gonfiato e trascinavo la gamba ormai rigida e insensibile.

Quando alla Stazione Centrale ci videro arrivare logori, barcollanti,  sfiniti,  io  insanguinato e  con le buste di plastica ai

piedi, i Milanesi ci portarono al Bar e ognuno faceva a gara per offrirci qualcosa: caffè, dolci, sigarette …

E volevano sapere, sapere, sapere dalla viva voce di noi scampati cosa era veramente successo in quella disgraziata, allucinante partita. E fu qui che ci mostrarono il giornale dove campeggiava già la foto di me in braccio al poliziotto, sul maledetto muro sbrecciato dell’Heysel.

E noi raccontammo le nostre storie parallele e sentivamo dapprima la naturale incredulità, poi il raccapriccio.

─ Si ─ ci dissero ─ i giornali ne avevano parlato e sparlato, ma i giornalisti si trovavano in tribuna stampa, lontanissimi dal luogo del disastro. Parlammo della follia inglese, dell’onda umana, della colpevole negligenza degli organizzatori e della Polizia belga, del furto dei nostri averi e poi dell’ultima beffa alla Stazione di Bruxelles.

“Milan l’è el coeur en man”, recita l’adagio noto in tutto il mondo. E neanche con noi ─ juventini ─ venne meno la generosità dei Milanesi i quali, non contenti di averci rifocillati, misero le mani ai portafoglio e qua mille, qua cinquemila, qua diecimila, ci ritrovammo con la bella sommetta di settantaseimila lire.

Salutammo gli amici e quasi in trionfo partimmo in taxi verso San Donato Milanese dove abitava mia sorella Angelina.

La prima cosa che feci fu di entrare da un ottico e comprarmi un paio di occhiali e così, man mano, attenuai l’atroce dolore che mi martellava nel cranio. E finalmente potemmo bussare da mia sorella.

Buttai gli abiti puzzolenti che mi si erano appiccicati addosso e mi beai in un interminabile bagno caldo, che mi fece rientrare in vita dopo tanto squallore. Intanto gli amici facevano la stessa cosa in altri bagni del caseggiato, messi a disposizione dai vicini. Ebbi un paio di scarpe da mio cognato, anche se di un numero più grandi.

Il giorno dopo arrivò tutto il condominio in delegazione, sventolando i giornali del mattino: su tutte le prime pagine campeggiava la foto di Stefano in bianconero, tra le rovine dell’Heysel.

Arrivò anche la telefonata di Marcello che aveva chiamato a Roccella, preoccupatissimo, sapendoci proprio nell’occhio del ciclone.

Non aveva saputo niente di me che non figuravo in alcun elenco, avendo rifiutato il ricovero, né di Nino Caridi, ma aveva rintracciato il passaggio di Stefano dal Pronto Soccorso.

Lo tranquillizzammo. La sera Nino e Stefano rientrarono a Roccella in aereo e io fui condotto al Centro Ortopedico dove mi venne diagnosticata la rottura dei legamenti crociati e del menisco. Si meravigliarono non poco di come io fossi riuscito a camminare in quelle condizioni, e ancor di più sgranarono gli occhi quando affermai di non aver provato alcun dolore, se non dal giorno dopo.

Avrebbero voluto operarmi d’urgenza, ma io ero troppo ansioso di tornare a casa e rifiutai.

Il giorno dopo partii da Linate e in poche ore fui a Lamezia dove vennero a prendermi e arrivai a Roccella in serata.

Non vi dico l’accoglienza, le visite, il trionfo dell’eroe redivivo, le storie incrociate con gli altri juventini del settore N.

Arturo Arena, Vittorio Grollino e Pino Badolato non si erano accorti di nulla di quanto era successo da noi. Avevano visto la Polizia caricare “gli scalmanati” che tentavano un’invasione del Campo prima ancora che la partita fosse iniziata e avevano mandato anche gli accidenti a quei cretini, sciocchi e malnati che, col loro atteggiamento, rischiavano la sospensione.

Avevano sentito le raccomandazioni alla calma dello speaker, gli appelli dei Capitani delle due squadre, ma soltanto alla Stazione avevano saputo di morti e feriti. Avevano trascorso la notte nella sala d’aspetto, insieme ad altri tifosi inglesi, aggruppati in un angolo e timorosi di probabili rappresaglie.

Dopo qualche giorno apprendemmo dalla Gazzetta del Sud che tra i morti c’era anche un tifoso di Grotteria e la data dei funerali.

Facemmo una colletta e comprammo una corona e alle esequie presenziò una nostra nutrita delegazione con le bandiere basse e abbrunate.

Ci andarono con la macchina di Pino Badolato, il nostro Presidente, Arturo Arena, Vittorio Grollino, Giò Ursino e Stefano. Io non potei perché avevo già la gamba ingessata.

Andarono anche altre delegazioni dai paesi vicini e si vide anche qualche timida bandiera di Milanisti e Interisti che vollero così unirsi al nostro dolore.

Ma dopo una settimana: il botto finale.

Era arrivato ai Carabinieri di Grotteria un telegramma: a Bruxelles avevano sbagliato. Quello sotterrato a Grotteria era invece un morto di Udine, “pregasi restituire salma at facilitare scambio”: Pazzia pura!

Dopo due mesi sia a me che a Stefano arrivò la parcella dell’Ospedale: quattrocentomilalire ciascuno.

Orbene, di Stefano avevano indirizzo e tutto, ma me, come mi avevano trovato? Almeno in questo le autorità belghe furono più che funzionali.

Intanto, dopo qualche giorno dall’arrivo, contattai il prof. Martino, Ortopedico della squadra di calcio di Catanzaro, che operava anche a Locri. Mi misi sotto la sua guida e dopo diversi interventi la gamba è tornata come prima.

Per diversi anni soffersi di agorafobia: non riuscivo ad affrontare luoghi anche parzialmente affollati: andavo in panico con attacchi d’asma e sudori.

Soltanto dopo quattro anni, quando la Reggina ascese in serie A, spintovi dagli amici, mi riavvicinai al calcio, ma con abbonamento in Tribuna Vip.

Dopo qualche anno venne Marcello in vacanza a Condofuri.

Ci rivedemmo con enorme piacere.

Eravamo seduti all’Ontario di Gioiosa con davanti a ognuno una capricciosa maxi, grande quanto una ruota di carro.

Lasciai le posate, puntai i gomiti sul tavolo e quando ebbi l’attenzione di tutti, recitai serio, richiamando quanto detto da lui a Bruxelles:

─ No, no, supa a chistu potiti stari sicuri ca ccà a Polizia non esti comu a chija italiana: ccà cu’ sgarra, paga! ─ (No, no, su questo potete stare certi che qua la Polizia non è come quella italiana: qua chi sbaglia, paga! )

Stefano per poco non si strozzò col boccone di pizza, Nino si gettò indietro di peso rischiando di capriolare all’indietro, Marcello dapprima restò perplesso, ma quando si accorse che in noi non c’era malizia, si mise a ridere di cuore anche lui.

─ A propósitu ─ gli chiesi ─ Ma ‘ncarcunu pagau pe’ tutti chiji morti? ─ (A proposito. Ma qualcuno ha pagato per questi morti? )

─ Sulu unu ─ rispose tentennante Marcello ─ ‘nu clienti meu, ‘nu poliziottu patri i famigghja. L’avenu dassatu sulu a guardia i ‘nu bucu e pe’ pocu non l’avenu ammazzatu i botti. Abbandono del posto di lavoro! Ora fa la guardia giurata davanti a ‘na Banca ─ (Solo uno, un mio cliente, un poliziotto padre di famiglia. L’avevano lasciato solo a guardia di un buco e per poco non l’avevano ammazzato di botte. Abbandono del posto di lavoro! Ora fa la guardia giurata davanti a una banca. )

A distanza di anni da tanta tragedia, una domanda mi martella ancora la mente, semplice e terribile nella sua essenzialità:

PERCHE’?!

 

I Ragazzi di Piazza Stazione: A Cronga i Fratima

Roma negli anni ’60 era semplicemente meravigliosa.

Per chi si era nutrito di studi classici come me i monumenti, i Musei, le superbe rovine, (un ulteriore museo a cielo aperto), erano la luce dell’anima, specialmente quando questo afflato poteva essere condiviso con altri studenti provenienti da tutte le regioni italiane. Ma a lungo andare cominciai a sentirmi sperso: mi mancavano i miei amici di sempre, il bar, il dialetto …

La sera correvo a Termini, alla partenza del treno per il Sud, per sentirlo parlare, trovare qualcuno con cui esprimermi liberamente, senza dover tradurre e mediare il mio pensiero.

Avevo cominciato a lavorare al Messaggero. Mi ero presentato a un Caporedattore e con l’arroganza propria dei giovani l’avevo aggredito: ─ Tutti mi dicono che sono una buona penna, mettetemi alla prova! ─

─ Va bene! Abbiamo un gruppo di giovani che girano per i Commissariati e ci portano le notizie di cronaca: così abbiamo cominciato tutti. Vediamo se sei bravo come dici. ─

E così mi misi a girare anch’io per i Commissariati.

Comprai una Olivetti di seconda mano (che uso ancora) e scrivevo le notizie di cronaca. Le scrivevo con titolo, sottotitolo e occhiello, non limitandomi soltanto ai fatti, ma a volte interpretandoli, collegandoli, dandoci dentro, spesso ironizzando. Così quando dovetti parlare di un carabiniere in borghese che aveva evitato una rissa, scrissi “che era stato il ciclere che aveva riportato al minimo le opposte tensioni”.

E quando scoppiò una lite di condominio tra abitanti di due palazzi che gestivano uno spazio comune, commentai: “e fu così che i Viet-Kong, le opposte fazioni che alimentavano la guerriglia, furono scoperti e isolati”.

Pertanto i miei articoli, quasi intatti, venivano  pubblicati  sul giornale, ma a firma del Capo. E io non vedevo una lira, né un riconoscimento.

Sopportai quindici giorni, un mese, due e poi, vedendo che la situazione perdurava ormai incancrenita, mi recai un giorno nel famoso ufficio e calmo e deciso chiesi ragione.

− Ma tu sai per quanto tempo Io ho dovuto inghiottire amaro, sopportare, sottostare quando ero giovane come te?

E tu chi credi di essere? Montanelli? Se ti piace stai, sennò quella è la porta, per uno che se ne va ci sono dieci che vogliono entrare. Marsch! –

Allora persi il lume degli occhi. Saltai in avanti, sporsi il braccio e facendo raggio con esso scaraventai a terra tutto quello che c’era sulla scrivania, telefono compreso.

E fu così che in un attimo finì la mia carriera giornalistica.

Il giorno dopo presi il treno e tornai a Roccella.

Qui pensavo di godermi i compagni, il bar, le amicizie antiche intessute di un solido sostrato di cose lungamente discusse e condivise …

Invece gli amici cominciarono a partire chi verso Milano, chi verso Torino e anche in America e verso l’Australia.

Restammo soltanto io e Testerrè dell’antica famiglia del Club Clandestino (Vedi “I racconti del Castello”).

Allora fummo costretti a unirci alla “cronga ‘i fratima”, cioè i ragazzi più piccoli, quelli che soltanto qualche anno prima erano per noi invisibili, privi di qualsiasi considerazione.

Valerio sguazzava in diverse compagnie, a seconda della bisogna: aveva i compagni di scuola del Ragioneria, quelli del Corso di dattilografia al Centro di Formazione Professionale di don Ettore Cotrona e un gruppo di patiti musicofili che erano sempre in giro col mangianastri e le borsette zeppe di 45 giri, a tracolla.

Li vedevo dappertutto, allindanati e stravaccati ad ascoltar musica sugli scalini della chiesa Madre,  sulle  panchine  della piazzetta di S. Antonio, a cavalcioni delle colonne in piazza…

In una giornata novembrina, uggiosa di pioggia, mi ero rintanato di pomeriggio a leggere il nuovo libro di Urania, lungamente atteso: Anni senza Fine di Clifford Sidmak.

Leggevo e la mia mente si apriva alle implicazioni sociologiche e scientifiche che il libro mi prospettava e mi apparivano risibili i catechismi e i dogmi con cui aveva cercato di imbonirmi l’Azione Cattolica, dettàmi di una religione palesemente e miseramente antropomorfa.

Ero assorto in questo Universo impensabile quand’ecco, come una frustata, il noto fischio di Testerrè.

Lo mandai mentalmente a quel paese: essere disturbato mentre leggo, quando sono perfettamente in sintonia con storia e protagonisti, uscire dal sogno per fiondarmi brutalmente nella realtà, mi ha dato sempre fastidio.

Comunque posai il libro, vi feci un’orecchietta ricordo e mi affacciai e dissi speranzoso a Peppe: ─ O Pe’, adduvi voi u vai? ‘On vidi ca staci chjovendu? ─ (O Peppe, e dove vuoi andare, non vedi che sta piovendo? )

─ E ‘ndavi u vaji spricata? ─ (E deve andare sprecata? )  Mi rispose serafico e inamovibile come il David di Michelangelo.

Capii allora che non l’avrei spuntata. Indossai uno di quegli impermeabili usa e getta in uso ai turisti, che notai indosso anche a lui, e scesi in piazzetta.

Appena sotto ci raggiunse Valerio accigliatissimo con altri sei o sette amici, decisi quanto lui. Ricordo Rocco Placanica d’U Mantellinu, Dino Guglielmelli, Pino Alvaro Calumija, Pascali d’u Cafuni e Franci U Zirgunaru.

─ Fàtivi u bigliettu ca ‘ndavimu u jamu a Sidernu ─ ci intimò Valerio senza darci alcuna via d’uscita: ─ I Sidernoti vonnu u nci mínanu a Dinu! ─ (Fatevi il biglietto chè dobbiamo andare a Siderno: i Sidernoti vogliono darle a Dino )

Franci  U Zirgunaru e Pino Alvaro all’epoca dei fatti

Franci U Zirgunaru e Pino Alvaro all’epoca dei fatti

Vallone Rena anni ‘20

Vallone Rena anni ‘20

Il fatto era grave e bisognava affrontarlo.

Mentre aspettavamo il treno, ci dettero maggiori ragguagli.

Dino, il bello del gruppo amoreggiava, corrisposto, con una delle più belle ragazze di Siderno.

Questa, naturalmente, aveva numerosissimi corteggiatori che lo avevano minacciato, coalizzatisi come Proci per l’occasione.

Rocco Placanica intanto si stava arrotolando attorno alle braccia dei fazzoletti per farsi enormi i bicipiti e intimorire così gli avversari.

Arrivò il treno e tutti avevamo abbracciata, solidali, la causa di Dino. E che diamine, quando mai a Roccella si erano fatte questioni del genere: se la ragazza ci stava, via libera.

Arrivati a Siderno non vedemmo nessuno, lasciammo la Stazione e ci inoltrammo nei vicoletti a lato per guadagnare la piazza.

D’un tratto fummo circondati. Da ogni vineja (Viuzza) erano sbucati gruppi di malintenzionati dai visi tesi e minacciosi e noi ci eravamo cascati in mezzo senza via di uscita.

Dovevano essere trenta o anche di più.

Ci mettemmo con le spalle al muro e cercammo di fare l’unica cosa possibile: negoziare.

Testerrè riconobbe nello schieramento nemico un suo ex compagno di scuola, lo prese sotto braccio e questo stemperò un po’ di tensione.

Rocco fece altrettanto con un attivista di partito col quale si era incontrato in diversi convegni e tutti quanti jemu videndu a zzita m’aballa (ci davamo da fare (chè la sposa rifiutava di ballare)).

Tutti meno Franci U Zirgunaru che, appoggiato al muro con nuca, spalle e piede, stava lì accigliato e senza muovere un muscolo.

Noi parlavamo c’u vitru e gudeja (col vetro alle budella), sull’orlo del precipizio,  quando una sola parola, un gesto inconsulto e mal interpretato poteva far precipitare la situazione, e lui lì provocatorio e sprezzante. Lo guardavamo preoccupati di sottecchi e spostammo ad arte la conversazione nella vineja laterale.

E finalmente, avendo convinti alla nostra causa alcuni di loro,  raggiungemmo l’accordo più civile, ormai in linea coi tempi nuovi: si lasciava libera la ragazza di decidere.

Appena fuori dalla mischia e ormai al sicuro, demmo tutti verbalmente addosso a Franci che, col suo atteggiamento scontroso, aveva rischiato una rissa per noi pericolosa.

Lui silenzioso e ingrugnito stava a sentire. D’un tratto, mentre noi ancora paventavamo il pericolo passato, tirò fuori una pistola e ce la sbandierò furente davanti agli occhi:

─ Non ndi potia succediri nenti, ca eu ‘ndavia chista ccà, e sacciu u sparu! ─ (Non poteva succederci nulla, chè io avevo questa, e so sparare!−)

Sul treno, fino a Roccella, nessuno disse più parola.

Tempo dopo, ma molto tempo dopo, sapemmo che si trattava di una pistola giocattolo, alla quale Franci aveva tolto il regolamentare tappo rosso.

Di Franci U Zirgunaru ce ne raccontò un’altra Pinu ‘i Calumija.

Franci si era pazzamente invaghito di Catuzza, una ragazza del Borgo, su al vico Bernardo. Franci smaniava per vederla e parlarle, ma i suoi facevano buona guardia, specialmente sua madre.

Roccella era sì un paese all’avanguardia, forse il più evoluto di tutta la costa, ma il processo era penetrato a macchia di leopardo: prima le famiglie impiegatizie, gli studenti e i professionisti; molte altre famiglie, meno evolute, erano ancora abbarbicate alla tradizione.

Nel periodo di Natale, ancora col buio, Catuzza e la madre si partivano dal Borgo, costeggiavano il Vallone allora scoperto e andavano alla Novena, giù alla Chiesa Marina.

─ Pinu, domani e cincu e menza vi’ ca ndavimu u ‘nd’arzamu ca Catuzza vaji a novina cu mámmisa e l’unicu modu ma viju è chistu? ─ (Pino, domani alle cinque e mezza vedi che ci dobbiamo alzare perché Catuzza va alla novena con sua mamma e l’unico modo per vederla  è questo ) Gli disse perentorio e concitato.

Gli poteva dire di no? Si può negare a un amico innamorato un sì piccolo favore?

E così, molto prima dell’alba, i due s’inguattavano sotto i gaffi  e al buio degli androni e seguivano le due donne cercando di sfruttare ogni occasione.

Giunti all’incrocio della via Torre Franci, seguito malvolentieri da Pino, prendeva la curranzina (la corsa), guadagnava la Strata Nova e in favore di discesa si precipitava al Vico Martiri, qui riguadagnava il Vallone e si appostava nel vico Limpido, chiju d’i ‘Mbemba (Quello dove abitano i ‘Mbemba)e aspettavano tremebondi che le due li superassero.

Franci, silenzioso come un giaguaro, curvo e invisibile come la Pantera Rosa, arrivava dietro Catuzza che perdeva passi ad arte, e le infilava in mano il bigliettino.

Una mattina la mamma se ne accorse e successe un macello: urli, epiteti, volgarità e minacce …

E così Catuzza si potè scordare la novena, le messe e le uscite.

Non la vedemmo più.

Passarono i mesi e venne la festa della Grazia. Il sabato, sotto i festoni di luce, i neo fidanzati tamarri si mostravano in pubblico a braccetto con dietro, a quattro passi di distanza, la compiaciuta scorta di parenti.

Ed ecco Catuzza, signata cu l’oru comu a Madonna i Pasca, a braccetto con un giovanotto forestiero.

Ci informammo: chi era? Da dove era sbucato fuori?

─ E’ ‘nu cuginu d’i soi. Vinni d’a Mérica ─ (E’ uno dei suoi cugini. E’ venuto dall’America) Ci illuminò Aldo Cuscunà, ben informato, del Borgo.

Franci inghiottiva amaro, diventato più scontroso e taciturno di prima; noi a consolarlo e lui a sentirsi offeso, disonorato e cornuto.

Non c’era bravo ragazzo, letterato o giovane possidente che allora potesse competere con queste due categorie:

i “vinni d’a Mérica” e i “s’a leva all’Austraglia” (il “Venuto dall’America” e il “Se la porta in Australia”).

Erano in assoluto le “professioni” più ricercate della Calabria di allora.

A Natale, mentre passeggiavamo in lunga fila fianco contro fianco, nell’accommiatarci Franci si girò, sibillino verso tutti:

─ O Pi’, domani árziti e sei e veni cu mia, accussì viditi cu’ esti Franci U Zirgunaru! ─ (O Pino, domani alzati alle sei e vieni con me, così vedrete chi è Franci di Zirgone )

Ancora col buio si ritrovarono sulla piazzetta del Borgo.

Pino notò che Franci aveva sotto il cappotto un grosso involto che nascondeva.

Si spostarono sotto un lampione e Franci, guatando sospettoso attorno, fece vedere.

Era una palla nera, grande come un pallone di calcio: da un beccuccio fuoriusciva una cordina affumicata.

─ E ‘ssa cosa ch’è? ─ (E quella cosa che è? ) Domandò curioso e preoccupato Pino.

− ‘Na bumba! Accattavi centu bumbiceji, i laprivi e a púrviri a ‘ndrupai nto cartoncinu e a ligavi stritta, poi a quagghjavi c’u gissu e a pittavi: a copiavi i chiji d’a Banda Bassotti. Fazzu u pezzu cchju grossu nommu u si vidi mancu c’u microscopiu,  specialmenti a chija préffica gargiazza d’a scunchjuduta i mámmisa! ─ (Una bomba! Ho comprato cento bombette, le ho aperte e ho stretta la polvere recuperata in un cartoccio, poi l’ho circondata di gesso e quindi dipinta di nero: l’ho copiata da quella della Banda Bassotti. Faccio che il pezzo più grosso non lo si veda neanche al microscopio, specialmente quella prefica linguacciuta e delirante di sua madre ).

L’antica fonta del bambino che gioca col pesce

L’antica fonta del bambino che gioca col pesce

E si diresse a larghe falcate verso vico Bernardo.

─ Aspetta ccá, nommu u veni ‘ncorcunu! ─ (Aspetta qua che non arrivi qualcuno ) Intimò a Pino.

Dopo un attimo arrivò correndo: ─ Fujimu ca n’attru pocu scoppia! ─ (Scappiamo che ancora un po’ e scoppia!)

Ma Pino, seguendo l’impulso incontrollabile della sua natura ben diversa, si precipitò verso il vicolo, afferrò l’ordigno dinanzi al portone di Catuzza, che poteva benissimo scoppiargli addosso e dilaniarlo, e correndo a più non posso, lo gettò nel Vallone, oltre il parapetto della fiumara.

─ A terra! A terra ca mo scoppia! ─ (A terra! A terra! Che ora scoppia! )

Si gettarono a terra aspettando il  finimondo, ma quando la miccia si fu consumata, invece della temuta esplosione, cominciò a uscire fumo, un fumo denso e oleoso, nero come se bruciassero cento copertoni di camion.

Pian piano la nube nera si allargò sui vicoli circostanti arrivando minacciosa sopra i Canali i Ciurria.

Era giorno avanzato e ancora la nube nera persisteva: usciva dalla “bomba” un cannolicchjo di fumo: la gente guardava ‘ncamata (meravigliata), senza capire.

Comunque Franci ormai non era più né disonorato, né cornuto, né offeso, a fronte del mondo intero.

 

*   *   *

 

L’inverno a Roccella può essere anche lungo e uggioso. Recita così un antico adagio, frammento forse di qualche Rota perduta:

Sentístivu lu friddu di stanotti?

Fortuna di vu’attri maritati:

u passarenu st’ottu misi i ‘mbernu,

m’arrívanu li quattru di la ‘stati. (Avete sentito il freddo stanotte, fortuna di voialtri maritati,possano passare questi otto mesi d’inverno,che arrivino i quattro dell’estate.)

Come si vede la percezione della gran massa di braccianti, contadini e pescatori di cui era largamente intessuto il sostrato sociale della Roccella di allora, avvertiva ben otto mesi d’inverno e soltanto quattro che potevano permettere di lavorare e guadagnare qualcosa. E anche noi dovevamo arrangiarci per passare le nostre serate di vitelloni roccellesi.

Eravamo con Testerrè dinanzi al bar ‘900: alcuni giocavano al biliardo, altri urlavano e fumavano attorno alla scopa o alla briscola. Aveva piovigginato per tutta la giornata, ma in  serata aveva smesso.

Roccella era stata invasa dalle rane, non fitte come quelle della piaga biblica, ma abbastanza numerose. Le vedevi saltellare ovunque, grasse e ben pasciute. Sull’asfalto luccicavano numerose le chiazze di quelle che inevitabilmente, finivano sotto le macchine.

Uscirono anche Toto Zito e Cecio u Brigghju che si erano stufati del calciobalilla. Dall’altra parte del marciapiede,  sotto il neon del “Moderno” Toninu U Sgujatu stava mostrando qualcosa ad Aldo Cuscunà e Pino Turnisi.

Arrivarono a grandi falcate dalla Stazione fratima Valeriu, Rocco Placanica e Pascali d’U Cafuni.

Valerio piombò incazzatissimo sul gruppetto:

─ Iju, iju t’u ‘rrobbau u curtejuzzu, u vitt’eu! ─ (Lui, lui ti ha rubato il coltellino, l’ho visto io!)

E puntava il dito accusatorio supr’o Sgujatu.

E gli altri minacciosi attorno

─ E’ non pigghjavi nenti, siti pacci! ─ (Io non ho preso niente! Siete pazzi! ) si scherniva Tonino addossandosi contro il muro.

─ U vitti eu, u ‘ndavi nta buggia! Fa’ u ti miníscita si ‘ndai coraggiu! ─ (L’ho visto io. Ce l’ha in tasca! Fatti perquisire se hai coraggio!−) Tonino, sentendosi innocente e preso alla sprovvista porse la tasca indicata e allora Rocco introdusse la mano e una grossa rana che teneva nascosta, poi con l’altra, Splash!

Gliela schiacciò dentro.

Risate sguaiate da parte di tutti mentre il burlato si dirigeva imprecando verso casa per cambiarsi.

Quindi la cronga si diresse verso la Piazza e noi li seguimmo divertiti alla lontana.

Così caddero nel tranello Gino Chiefari in Piazza, Pascaleju a Trutra o Vajuni e Gino Tallarida nto Quatru.

Noi tornammo indietro, ormai  disinteressati  e  accompagnai Testerrè a Zirgone e ci attardammo a chiacchierare sul muretto del ponte.

Lariu i Verrina aveva parcheggiato il carretto dall’altro lato e messe in bella mostra alcune cassette di cachi.

Erano i migliori dell’Universo Conosciuto succosi, con appena un accenno di cammisa sciancata, con un retrò di aromatico gusto alla vaniglia. Soltanto che pretendeva 30 lire a cachi.

Ci avvicinarono Franci U Zirgunaru, Peppi Guarneri ‘i Piccinna e Toninu u Sgujatu ormai cambiatosi e desideroso di riscattarsi.

─ U carrettu è votatu c’u culu versu a straticeja d’u ponti ─

Ci apostrofò Franci senza preamboli ─ Si ‘ncorcunu nci duna paroli ja davanti, nui potimu surgiri d’arretu e mu ndi ‘rraffamu ‘na para i cascetti ─(Il carretto è girato col culo verso la stradella del ponte. Se qualcuno gli dà parole là davanti, noi possiamo sorgere da dietro e succhiarci qualche cassetta di cachi).

Abbassammo il capo in segno di approvazione.

Demmo l’incarico a Peppi i Piccinna piccolino, dagli occhi piagnucolosi, sembrava  un  angioletto  caduto  dal  Paradiso,  com’a ‘nu potaciu volantinu (come un uccellino al primo volo), ma attore esperto e scanzonato.

Così noi tornammo caracollando verso il Dormitorio, ma prima attraversammo la viuzza e fummo in via Orlando, da qui svelti, rasentammo il ponte della ferrovia e ci ‘nguattammo dietro la protezione del muretto.

Peppe ci vide e si mise in estasi, coi soldi in mano dinanzi ai cachi. Lariu mosse le chiappe per invogliare l’acquisto e ci volse le spalle.

Mentre Peppe titubava indeciso e discuteva sul prezzo, noi arraffavamo a turno una cassetta ciascuno e ci dirigevamo al sicuro verso la spiaggia.

Peppe, vista la manovra, fece fallire ad arte la trattativa con un prezzo assurdo e ci raggiunse, dapprima lento e compassato, ma poi fulmineo come ‘na ciávula in picchiata.

Banchettammo e sbanchettammo  a  scasciapanza  poi  rimettemmo furtivi i vuoti sul carretto e tornammo a raccontarla agli amici del Bar.

Ma le migliori serate erano quelle passate  al Ristorante Flora di Rinaldo Coluccio, anch’egli della cronga.

Io avevo cominciato già a guadagnare qualcosa con le Scuole Popolari e poi con le supplenze, Valerio era foraggiato da mamma che faceva la ricamatrice in casa ed era sempre generosa con i figli.

Mio padre no, era tiratissimo e ci riteneva fortunati per avere da mangiare ogni giorno e un letto per dormire:

─ Eu, cu ‘nu jancu d’ovu ‘ndavia u vaju quattru jorna, quattru e no unu … ─ e poi a denti stretti ─ ca u russu s’u mangiávanu l’attri … ─ (Io con un bianco d’uovo dovevo vivere quattro giorni, quattro e non uno, chè il rosso lo mangiavano gli altri… )

Da sinistra: Mimmo Bova, Rocco Placanica d’u Mantellinu, Pi-no “Calumija” Alvaro, Pascali u Catunaru, Francu ‘i Zirguni alla stazione.

Da sinistra: Mimmo Bova, Rocco Placanica d’u Mantellinu, Pi-no “Calumija” Alvaro, Pascali u Catunaru, Francu ‘i Zirguni alla stazione.

Roccella, agosto 1957, alla stazione sotto il benjamina sul bina-rio morto.

Roccella, agosto 1957, alla stazione sotto il benjamina sul bina-rio morto.

Avendo per usbergo la sua passata povertà, ci riteneva quindi vagabondi malnati, vitelloni lussuriosi, pigri, infingardi, neghittosi e poltroni, nonché pingui e fannulloni …

Ci raccontava che una volta, già giovanottello, doveva andare a Siderno alle Scuole Superiori e non poteva certo andare coi pantaloni corti.

Si riunì il consiglio di famiglia e nonna scaternijò (rovistò) in un vecchio baullo e trovò una pezza di stoffa tra i ricordi brasiliani del nonno:

─ Ti piaci? ─ Gli chiesero melliflui e accattivanti

─ Si! ─ Rispose mio padre tutto contento

─ Però vi’ ca a rrobba n’abbasta pe’ tutti i ddui ancheri: vo’ diri ca l’attra t’a facimu cu una chi s’arrassumigghja ─ (Però vedi che la stoffa non basta per entrambe le anche: vuol dire che l’altra te la faremo con una stoffa somigliante )

E così mio padre andò alle Superiori vestito come un paggetto del Magnifico Lorenzo.

Al Ristorante cucinava la mamma di Rinaldo, specializzata nel pesce.

Gli spaghetti al sugo di pesce, la cernia, il dentice, le fritture di

pizzutejo e le zuppe erano una goduria, innaffiate dall’ottimo

Cirovin ‘61.

In estate eravamo noi a fornire il pesce e lei ce lo cucinava.

Rinaldo, quando poteva, mangiava con noi in perfetta allegria.

Naturalmente i prezzi erano di assoluto rispetto: non per niente eravamo amici i ‘mbernu.

Quell’estate Rinaldo aveva preso in gestione “La Barcaccia”, locale in via Marina, sito in un palazzotto settecentesco, già dimora estiva dei Principi Carafa.

Era stato un grido di locale in apertura. Il banco era una enorme barca in cemento, da cui il nome, perfetta in tutti i particolari.

Poi era stato arredato in simpatico stile marinaro con rizzille, conchiglie, nasse e lampare per lampadari.

Rinaldo gestiva anche il Lido Flora del quale il Ristorante era la naturale appendice.

Si era sul finire dell’estate. Rinaldo aveva ‘ntrizzato con Chiara, una dolce e prosperosa bolognese, venuta per la prima volta a Roccella. Fra i due era nato amore a prima vista, anzi passione, da subito calda e struggente.

Chiara rinunciava anche al bagno: si sedeva accanto al Bar, sotto l’ombrellone e si beava della vista del suo bel Rinaldo, scambiandosi sguardi di fuoco.

Eravamo a cena alla Barcaccia quella sera. Testerrè si era da poco fidanzato con Melina, liceale di San Nicola di Caulonia che abitava a Roccella, ed io ero di fronte a sua cugina Renata.

Io mi aspettavo molto da quella serata. Conoscevo Renata da molto tempo, prima che con Peppe diventassimo fratelli.

La conoscevo perché entrambi partecipavamo  all’ORA JU, uno spettacolo all’aperto, organizzato dall’Azione Cattolica.

Lei cantava con bella voce intonata, le canzoni del tempo.

Avevo quattordici anni allora e mi ero rintanato nella stanzetta della biblioteca, già da un paio d’ore, per leggere I RAGAZZI DELLA VIA PAAL. Nello stanzone d’entrata i Merry Boys, l’orchestra dei ragazzi più grandi, stava provando e Renata cantava.

E mentre il piccolo biondino Nemecksek affrontava Franco Ats e lo atterrava dando così la vittoria ai suoi, fuori provavano Vecchio Scarpone e quella lenta marcetta mi accompagnava mentre la mamma riportava a casa il biondino moribondo avvolto in uno scialle e l’esercito vittorioso di via Paal la seguiva in doppia fila, a passo di marcia, coi cappelli rossoverdi …

E poi Nemecksek e io agonizzavamo lentamente e loro provavano Moulin Rouge e le spazzole di Filicetto toccavano appena la pelle del rullante e Nemecksek era in piedi sul letto e gridava nel delirio frasi eroiche e il padre inghiottiva le lacrime sul vestito che stava cucendo per quei soldi che avrebbe dato al falegname, in cambio di una piccola bara, una piccola bara bianca …

E io mi innamoravo di quella musica, e Filicetto continuava a strusciare languide le sue spazzole sul rullante, e Nello straziava allo spasimo la sua fisarmonica e Arturo singultava penosamente nel sax … di quella voce, quella voce che mi trascinava in alto, oltre la Galassia, oltre Andromeda e Orione, verso l’inconoscibile e piangevo lento, da solo dolcissime lacrime che macchiavano le pagine di quel capolavoro …

Franco Valerio – Rocco Placanica al Centro di Formazione Pro-fessionale di don Ettore Cotrona

Franco Valerio – Rocco Placanica al Centro di Formazione Pro-fessionale di don Ettore Cotrona

Rinaldo Coluccio “Flora”

Rinaldo Coluccio “Flora”

Ora eravamo a cena ed io mi sentivo libero e gasato.

Mi venivano naturali le battute più spiritose e la vedevo ridere di promesse e di simpatia.

Il locale man mano si stava svuotando finchè rimanemmo soltanto noi al nostro tavolo e Rinaldo e Chiara più in là che si mangiavano con gli occhi.

A un certo punto Rinaldo mi strizzò l’occhio e sbattè piano la testa di lato, sorridendo.  Già, come  non  lo  avevamo  capito

prima: Rinaldo non poteva chiudere se noi non smammavamo.

─ Rinà! Ndi vidimu domani, bonanotti! ─ (Rinaldo, ci vediamo domani, buonanotte)

E così ci alzammo, salimmo sulla macchina che Renata, la ricca della compagnia, aveva preso in affitto a Caulonia, e ci spostammo su al Bristol.

Ballammo qualche ora alla musica del Juke Box: Maria Elena, Only You, Notte di Luna Calante …

Poi ci spostammo al Miramare di Gioiosa a goderci il plenilunio sul mare e ballammo ancora, ormai guancia a guancia e braccia al collo.

Saranno state le tre quando accompagnammo le ragazze e anche noi tornammo a casa.

Valerio già dormiva casarro nel lettino accanto, io feci piano per non svegliarlo e mi stesi al buio, ad occhi aperti, a rivedere il film di quella serata memorabile e poi mi addormentai “col cuore in Paradiso”.

Presto, molto presto squillò il telefono.

Lo prese mia madre, già in piedi.

─ Valeriu, Valeriu! Risbígghjiti! Ccà nc’è Roccu Placanica, ‘on sacciu chi succediu! ─

Io ascoltavo a metà tra sonno e veglia:

─ Chi? Ma chi stai dicendu? Rinaldu? ─ (Valerio, Valerio! Svegliati! C’è Rocco, dice che è successo qualcosa – − Cosa? Ma cosa stai dicendo? Rinaldo? )

Valerio urlava dentro la cornetta, poi lentamente la lasciò.

Aveva gli occhi sgranati e pieni di pianto. Arrivai anch’io.

─ Rinaldu …… stanotti …. S’ammazzau c’a máchina! ─ (− Rinaldo …  stanotte … s’è ammazzato con la macchina -)

Ci vestimmo in fretta e fummo giù in piazzetta.

C’erano già Rocco, Dino Guglielmelli, Aldo Cuscunà, Angeli-no Capitanio e man mano stavano arrivando tutti, Toto Zito, Pino Alvaro, Peppi Guarneri, U Sgujatu …

Sapemmo così tutti i particolari della vicenda.

Rinaldo e Chiara, dopo la chiusura del locale, erano partiti sulla millequattro blu di Rinaldo. Giunti un po’ oltre Caulonia, forse non resistendo alla forte passione che li bruciava entrambi, si erano addossati in uno spiazzetto a lato della strada.

Qui li aveva investiti il camion d’un balordo che li aveva trascinati per oltre cento metri. Chiara era viva, soltanto perché protetta dal corpo di Rinaldo, proteso su di lei nella posizione dell’amore.

Andammo all’Ospedale di Locri a trovare Chiara: era in rianimazione, ma soltanto per il forte trauma psichico.

Fu dimessa qualche giorno dopo e l’accompagnammo a prendere il treno a Locri, non osando partire da Roccella. Era l’ombra di se stessa e non la vedemmo più.

 

E così finì la nostra “Bella Estate”.

E ci piovve addosso, improvviso, il più gelido degli inverni.

 

I ragazzi di Piazza Stazione: GLI ARTERITANO

Se il Castello è il centro storico ed emozionale della Roccella antica, la Stazione Ferroviaria, costruita in maniera speculare proprio sotto il centro della rocca, è l’anima della Roccella nuova.

Dinanzi ad essa si apre una piazzetta quadrata con al centro una gradevole fontana rotonda con vasca in granito, a labbri sporgenti.

Dentro la vasca si alza una piramide triangolare tronca di pietre morte, bucherellate dai trilobiti quando la Calabria era ancora sommersa.

Sui tre spigoli si adagiano tre eleganti tritoni in marmo bianco, dalla cui bocca versano altrettante cannelle.

Attorno alla piazza folti ficus benjamina assicurano  l’ombra alle panchine e ai clienti del Bar- Ristorante della Stazione e del Caffè della Lirica.

Davanti, oltre il Corso Roma, si apre l’ampia strada detta U Misóstracu, una volta alberata, che incontra la via Nanni ad angolo acuto.

Ai lati del Misóstraco (Strada lastricata da cocci) si alzano casette a un piano, oggi intonacate, ma una volta tutte a mattoni a vista.

La strada è tagliata da vicoli, tre da una parte e quattro dall’altra.

Da qui, dalle Palmare, dalle Timpe, da Zaddeo e dal vicino quartiere di S. Antonio provenivano i ragazzi di Piazza Stazione.

Gli Arteritano abitavano sul primo vicolo a destra, al piano terra del palazzo Ariganello.

La casa aveva due entrate: la principale sul vicolo e dava direttamente in cucina, l’altra sul Misóstraco dalla quale si accedeva nella camera dei ragazzi: Rocco, mio coetaneo e compagno di scuola e Armando più piccolo.

Il padre faceva il meccanico e aveva l’officina nella piazzetta della Dogana per le poche macchine allora in circolazione.

Era un padre padrone, sempre truce e severo con diritti assoluti e incontrastati su tutta la famiglia. Lo si vedeva raramente in casa, sempre unto e bisunto nella sua officina.

Quando sapeva di qualche marachella da parte dei figli, comandava livido e glaciale al condannato:

─ Va’ jani a Peppi d’u spacciu e accatta ddu’ metri i corda e ‘na buttígghja d’acitu! ─ (Vai da Peppe dello Spaccio e compra due metri di corda e un litro d’aceto )

Avuto il richiesto in mano, bagnava lentamente la corda fatta doppia nell’aceto e via nerbate sulle gambe e sulle braccia del malcapitato.

La mamma e la sorella, pallide e terrorizzate, sapevano di non poter intervenire in difesa.

Rocco, gracilino, occhi chiari della madre, di carattere dolce e arrendevole, era perciò chiamato U Musciu; Armando, il fratello più piccolo, era invece protervo e teppista, detto ‘U Cacasangu.

La madre Clelia era una donna magra e allampanata dagli occhi chiari e dai capelli biondicci che portava lunghi: parlava sempre piano, sorrideva triste, era gentile e riservata, si muoveva come una sonnambula. La sorella Lilla era il pezzo forte della famiglia: bella e formosa, labbra turgide, vita stretta e seno prosperoso, fianchi perfetti, era l’oggetto del desiderio di tutti i ragazzi grandicelli della piazza.

Noi andavamo da Rocco, con la scusa dei compiti, sperando ci fosse la sorella. Questa si accorgeva naturalmente dei nostri sguardi e dei nostri turbamenti e giocava a stuzzicarci.

Si sedeva, si scomponeva ad arte, lasciava intravedere sapientemente le sue grazie. Quando usciva di casa, era seguita dagli sguardi bramosi di tutti i maschi accampati dinanzi ai bar, ai caffè e alle panchine.

Con Rocco eravamo compagni di scuola dalla seconda elementare.

Era un patito del calcio e della Juventus.

Comprava tutti i numeri di “CALCIO ILLUSTRATO” e li leggeva e rileggeva fino a impararli a memoria.

Poi ci raccontava di Boniperti, di Parola e di Muccinelli.

Sul Calcio Illustrato venivano disegnate le azioni dei goals, tratteggiando le traiettorie della palla e mostrando le posizioni dei giocatori.

Così anche noi, attraverso di lui, godevamo dei guizzi di Muccinelli, dei passaggi calibrati e della intelligenza di Boniperti, nonché naturalmente delle doti realizzative di Charles, lo scozzese potente come un ariete. Quando poi alla Juventus arrivò Sivori, fummo tutti pazzi per lui.

Don Alfredo Capitanio ci aveva regalato due dei suoi registri di spedizioniere perché noi gli portavamo a spasso il cane.

Rocco ritagliava e incollava foto di giocatori in azioni acrobatiche e nelle movenze plastiche, specialmente i portieri e le rovesciate aeree e spettacolari di Parola. Io avevo cominciato da poco la collezione di francobolli e li applicavo, Stato per Stato, utilizzando i tronconi collati rimasti dalle striscette della Sisal (il Totocalcio di allora).

Poi avvenne la terribile tragedia della squadra del Torino di Valentino Mazzola. L’aereo, che li riportava a casa dopo un’amichevole in Portogallo, si era schiantato, per la nebbia, sulla collina di Superga.

Scomparsa in un attimo la mitica squadra che dava alla Nazionale ben otto giocatori, e con essi le riserve, i tecnici, gli accompagnatori, i giornalisti…

La radio non parlava d’altro e quotidiani e settimanali erano pieni di foto e servizi.

Io e Rocco leggevamo e assorbivamo tutto, partecipando intensamente, col nostro cuore di bimbi,  alla  immane commozione nazionale e mondiale. Quelle foto, che insistevano tragiche sul lacerante contrasto tra le linee pure della basilica rinascimentale, emergenti dalle le brume del mattino, e l’inestricabile disastro di quelle lamiere contorte, si stampavano indelebilmente nei nostri ricordi primevi, tenaci come le impronte dei grandi rettili sulle argille del Cretaceo. …Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Gabetto, Loik, Mazzola, Ossola. Addio! Addio per sempre!

Leggevo e piangevo con la Domenica del Corriere aperta sul lettone dei miei e automaticamente sbocconcellavo del pane e salsiccia e mi straziavo dentro per l’ineluttabilità di quanto successo. Mi commuoveva soprattutto la promessa dei Presidenti delle squadre di serie A, Agnelli della Juve in testa, di presentare le loro formazioni giovanili ogni qualvolta avessero dovuto incontrare i giovani che il Torino era costretto a mandare in campo.

Bene, a tutt’oggi, dopo più di sessanta anni da quella tragedia, ogni qualvolta mi ritrovo a mangiare salsiccia, associo immancabilmente il profumo del salame alle sensazioni e alla immane tristezza di allora.

 

*  *  *  *

 

Anche a Roccella si giocava al calcio, da amatori, si intende.

I grandi usavano uno spiazzo dinanzi a palazzo Genovese, ora Via Marina.

Dove oggi s’innalzano le colonne, al tempo c’era il Cinema-Teatro Globo, ex Casa del Mietitore.

Costruita dal Fascismo, ad opera di un suo gerarca, durò appunto poco più di un ventennio, quanto il regime che l’aveva voluta. Davanti si apriva uno slargo irregolare che finiva contro la montagna piatta delle ferrujine. Qui i ragazzi più grandi avevano piazzato una sola porta e ci andavano a giocare. Noi, guidati da Rocco, assistevamo e ammiravamo l’eleganza di Massimo Jellamo e dei suoi fratelli, la potenza di Michele Muscolo U Pistolaru, di Angelo Laganà “Pongiula”, dei virtuosismi del portiere Mario “Miu” Capitanio, che si esibiva in tuffi alla Sentimenti IV, l’astuzia di Ciccio Zito.

Naturalmente tutti giocavamo al calcio, ma con la palla di pezza. Questa era costituita da una calza da donna, il cui fondo veniva riempito di vecchi stracci fino a darle una forma rotondeggiante, poi il resto della calza veniva più volte arrotolato su questa rotondità e i bordi residui cuciti.

Il nostro campo di calcio era il primo vicolo a sinistra del Misóstraco. Era un budello lungo, stretto e polveroso. Le porte erano larghe quanto il vicolo stesso. Si giocava in quindici contro quindici, in venti contro venti. Bastava che si presentassero due pretendenti e avevano automaticamente posto in squadra: uno da una parte, uno dall’altra.

Non c’erano regole, se non quelle di togliersi le scarpe, né si potevano usare accortezze, strategie o fare passaggi, come invece voleva Rocco: era uno spingere, un urlare, uno scalciare pazzo tentando di lanciare la palla contro la porta avversaria, difesa di solito dai più piccoli o dai più sprovveduti.

Ricordo mia madre che dal balcone sul Corso mi gridava inutilmente:

─ Francucciu! Méntiti i scarpi ca oji è domínica! ─ (Francuccio! Mettiti le scarpe chè è domenica! )

─ Ássimi stari! ─ (Lasciami stare! ) Rispondevo io ansante e sudato.

Durò finchè un pomeriggio il fotografo Violi uscì furente tenendo in mano, alta, una pistola e minacciò di ammazzarci tutti.

Allora ci spostammo sul vicolo di fronte.

Ma anche da qui ci sloggiò il parroco Cappelleri, notoriamente iroso e insofferente.

1948, al centro Massimo Iellamo, Mario Iellamo, Nicolinu u Giarraru, Michele Muscolo d’u pani, Vincenzino Iellamo, Cic-cio Asprea d’a “ndrina”

1948, al centro Massimo Iellamo, Mario Iellamo, Nicolinu u Giarraru, Michele Muscolo d’u pani, Vincenzino Iellamo, Cic-cio Asprea d’a “ndrina”

Una partita del Roccella al "Nino Bumbaca". Da notare l'alta scarpata della ferrovia.

Una partita del Roccella al “Nino Bumbaca”. Da notare l’alta scarpata della ferrovia.

Sloggiati dal Misóstraco, trovammo accesso in uno spiazzo erboso alla Marina, di fronte alla casetta di Peppineja, proprio alla foce d’u Vajuni d’i Pisciazzi, la cloaca maxima di Roccella.

Poi,  finalmente,  il  campo  di  calcio  regolamentare,  anche se

senza recinzione e spogliatoi, venne costruito al limite del primo casello verso Caulonia, e Roccella si ebbe la squadra di calcio con tanto di magliette, scarpette, pantaloncini e calzettoni: sponsor la Pasticca Taitù di Don Pasqualino Laganà.

Tutti noi ragazzi impazzivamo per la nostra squadra, granata come il grande Torino e le domeniche, manco a dirlo, quando si giocava in casa, eravamo tutti al campo a urlare, a scalmanarci, a odiare l’arbitro con parole di raccapriccio.

Portavamo alta “a reschja”, un pezzo di aloe dentellato ai bordi e infisso in una canna, forse ricordo della  più famosa “Spina” dei Carafa. Quando il Roccella vinceva, gettavamo sprezzanti la nostra reschja agli avversari come per dire: − Ecco, noi abbiamo mangiato il pesce e per voi soltanto le lische! –

Orbene, tra tanti impegni di giochi e sogni giovanili, dedicavamo poco tempo allo studio, basato molto sulla memorizzazione di regole e date,rasentando spesso l’assurdo. Basti pensare che mentre eravamo costretti a studiare tutti i particolari delle Guerre Sannitiche, nel Mediterraneo si sviluppava la civiltà ellenistica, una delle più fascinose e sontuose di tutta la storia. E noi giù, soltanto con le guerre sannitiche.

Anche Rocco, pertanto, si ebbe la sua pagella pesante, la convocazione del padre e le filippiche conseguenti.

Don Giulio,  vedendo che la cura della  corda e dell’aceto era

inefficace, decise di punire Rocco in quello che gli era più caro: nel calcio.

Domenica Roccella doveva incontrare la Palmese, prima in classifica e noi eravamo  secondi.  Avessimo  vinto, saremmo saliti in vetta alla classifica. Immaginarsi i preparativi, le reschje gigantesche, la spasmodica attesa.

Eravamo tutti pronti quel pomeriggio con le nostre “reschje” a partire per il campo e Rocco non si vedeva. Andammo da lui e lo trovammo piangente e incatenato alla macchina Singer della madre.

Rocco era disperato e si torceva in quel suo supplizio, nella sua frustrazione, nella sua impotenza umiliante e rabbiosa, quando Toto Zito osservò: ─ Ma a máchina ndavi i roti…Ti spingimu nui fina o campu! ─ (Ma la macchina ha le ruote. Ti spingiamo noi fino al Campo!)

E così, complice la madre che per amore del figlio si metteva in una brutta posizione, sollevammo di peso Rocco e

tutta la macchina e superammo i due alti gradini d’ingresso, poi giù nel vicolo e finalmente sulla strada asfaltata.

Eravamo in sei, ma presto fummo decine: tutti volevamo partecipare a quella stranezza e spingere Rocco per quel buon chilometro fino al campo.

Fu quindi in maniera trionfale che arrivammo a destino, con la Singer che andava all’ambio e Rocco curvo e saltellante con movenze da Orango-Tango.

Chi non era al momento impegnato a spingere, doveva reggere, oltre alla sua, le reschje degli altri, alte e minacciose e sembravamo le armate del Macedone in marcia sull’Indo.

I grandi guardavano e commentavano divertiti, mentre nugoli di ragazzetti ci ballavano attorno facendo cagnara.

E arrivammo al Campo.

Qui ora bisognava scendere dalla strada e risalire sulla scarpata della ferrovia e sistemarci su di essa in modo che Rocco dall’alto, senza spettatori davanti, potesse farci la radiocronaca in diretta come faceva Nicolò Carosio alla radio.

La Palmese era una signora squadra. Ci fece enorme impressione il fatto che scendessero dal pulman con tutte le borse verdi uguali, con la scritta U.S. Palmese e che poi tirassero fuori le asciugamani con i colori sociali e le scarpette nuove e lucide.

Si cominciò e noi a gridare, a schiamazzare, a insultare l’arbitro e prenderlo in giro per i capelli rossi:

─ Pari ‘nu vijozzu i panículu gugghjutu! ─ (Sembra un bitorzolo bollito di granoturco! )

E tutti a ridere.

─ Garómpulu ammusciatu d’a Pardisca, vi’ ca ‘nci misi a sgambetta. Fetusu! ─ (Garofano moscio della Pardesca, attento chè gli ha fatto lo sgambetto. Fetente )

E tutti a incazzarci insieme all’urlante.

Era questi uno dei tifosi più pittoreschi e ammirati, un pescivendolo vivace, sarcastico e rubizzo, di cognome Muscolo ma universalmente conosciuto come U Belluzzu.

Quando passava vociante per il paese col suo banchetto del pesce a traino e vedeva raccogliersi attorno curiosi e probabili compratori, dava calci occulti alla carretta, facendo sobbalzare il pescato:

– Móvinu! Ancora sártanu! Rrobba viva! Móvinu! Sártanu! – (Si muovono, ancora saltano! Roba viva! Si muovono! Saltano! )

Urlava convinto e convincente.

Al campo era uno spettacolo, insieme o’ Ceciru, un altro pescivendolo “agathos boén”(valente nel gridare (cit. omerica)): li si sentiva da ogni parte del campo coi loro vocioni allenati dall’esercizio, alzando  reschje enormi e spropositate.

Rocco intanto, storto come il pedale d’una pergola annosa, non potendo muovere le mani, sbatteva i piedi, rischiando di rovinare giù dalla scarpata di ciottoli e intanto “trasmetteva”:

− Siamo al diciottesimo del primo tempo. Avanza Cara sulla sinistra  a grandi falcate, supera in velocità Rovati e appoggia a Jellamo, questi a Orlando che sposta leggermente sull’accorrente

Ciccio Zito che tira in porta una bordata forte ma centrale. Para Dell’Oglio in due tempi! –

Finì il primo tempo senza reti.

a reschjia

a reschjia

Nell’intervallo, poiché le squadre, in assenza di spogliatoi, rimanevano ai margini del campo, ci sfogammo contro gli avversari, proprio sotto di noi, per intronarli e demoralizzarli.

─ Forza cotrari! Gridati forti! Tutti ccà, tutti ccà, ne’ fati u raggiúnanu! ─ (Forza ragazzi, gridate forte, non fateli ragionare! )

Ci spingeva Colombo, il barista della piazza: un personaggio!

Durante la settimana era il ritratto della fiacca, sempre con in bocca la sigaretta dalla cenere lunga.

Si narra che durante una siesta, seduto al tavolino del suo bar, per quell’ora deserto, un cliente l’avesse svegliato per un caffè:

─ Ma cávulu! Ti partisti ‘i Zirguni, passasti d’u Centrali, d’a Stazioni, d’u Modernu, d’u Novecentu.. e propria ccà ndavivi u chjovi po’ cafè?! ─ (Ma cavolo, ti sei partito da Zirgone, sei passato dal Centrale, dalla Stazione, dal Novecento, da don Mico…e proprio qui mi dovevi piovere per il caffè! )

A una turista che gli aveva chiesto la chiave del bagno, ricordandosi che mancava la carta igienica, gridò dietro:

− Solo urinare! Solo urinare!–

E quella serafica da dentro:

− Troppo tardi! Troppo tardi! –

A un altro che gli urlava che dentro la tazza del caffè c’era una mosca, rispondeva piccato:

─ E ca tu pe’ centu liri chi volivi? ‘Nu crapettu? ─ (E che tu per cento lire cosa pretendevi? Un capretto?)

Al campo si trasformava, diventava una belva, dovevano tenerlo che non entrasse in campo a fare sfracelli.

Comunque non avevamo bisogno di incitazioni chè da soli sembravamo le scimmie urlatrici di Salgari.

Immaginarsi cosa successe quando l’arbitro assegnò il rigore alla Palmese: Angelo “Póngiula” aveva respinto di pugno, a portiere battuto, un tiro degli avversari.

Chi pregava, chi si girava per non vedere, chi ancora imprecava: niente da fare, Mario da una parte e pallone dall’altra.

La rabbia, lo sgomento, l’incredulità e poi l’incitamento ai nostri che si riversavano nell’area avversaria in cerca del pareggio. Intanto scorrevano i minuti sull’orologio di Franco Cremona: meno otto, sette, sei… il silenzio era piombato sul campo, quando sentimmo Massimo urlare al fratello a pieni polmoni:

─ Léviti i menzu! ─ (Levati di mezzo!)

Calciò di collo pieno e la palla s’infilò nell’angolino alto.

Fu un grido che arrivò al cielo, un peana corale di gioia collettiva: ci si abbracciava tra sconosciuti, si saltava assieme.

Rocco sgambettava per aria e noi dovevamo anche tenerlo, lui e la macchina.

Poi finì e fummo tutti contenti per come si erano messe le cose.

Già quasi imbruniva e riprendemmo la via del ritorno.

Rocco appariva preoccupato ora: certamente da tutta quella pubblicità qualcuno lo avrebbe detto a suo padre. La sua tristezza divenne la nostra e fu col cuore in gola che lo riconsegnammo a sua madre.

Il giorno dopo l’amico, tutto pimpante ci rasserenò: suo padre, almeno per questa volta, l’aveva presa a ridere e se l’era cavata con una ramanzina e un innocuo scappellotto.

Dopo qualche giorno sia Rocco che Toto ripresero a tormentarmi chè volevano vedere mio zio Peppe, il matto cieco.

Questo mio zio, fratello del papà di mia madre, viveva in soffitta, due piani sopra di me. Vi si accedeva per una ripida scaletta in legno, sporca e bisunta, che partiva dal cucinotto interno del secondo piano.

Qui vivevano, da una parte zia Pierina di Nicotera, moglie di letto separato di zio Peppe, e dall’altra le sorelle Capitanio, Emilia e Nannina, napoletane di Pompei.

Zio Peppe era cieco e pazzo. Egli era stato ufficiale delle Poste, quando queste erano ubicate in un’ala dell’attuale Municipio.

Mentre rientrava a casa in un giorno di forte vento, si sgretolò il tetto del campanile della Chiesa Matrice e volò via in mille pezzi.

Uno di questi colpì lo zio Peppe alla testa, proprio là dove anni prima lo avevano bastonato alcuni caprai per questioni di pascolo abusivo.

Fatto sta che a zio Peppe, lentamente, venne meno la vista e l’intelletto.

Si ridusse a vivere in soffitta dove confondeva il giorno con la notte; scendeva di là a tutte le ore con una larga benda dinanzi agli occhi, guidandosi con un  bastone  e  affrontando  lunghi monologhi con Taitù, con Menelik, con Badoglio, il Re e Mussolini e quanti altri il suo cervello bacato gli suggeriva.

Zia Pierina, moglie ripudiata di letto già dai primi giorni di matrimonio, prima lo aveva abbandonato tornandosene a Nicotera dai suoi, poi era rientrata “per le due pensioni e per l’eredità” come commentavano maligne al braciere mia madre e le sorelle Capitanio.

Le due sorelle erano completamente diverse: Emilia alta, fine, delicata, naturalmente aristocratica, usciva di rado; Nannina,

al contrario, era robusta, sboccata, volgare. Entrambe però, dal cuore d’oro.

Io salivo alla soffitta da zio Peppe per portargli da mangiare su un vassoio, quando la zia Pierina ancora non c’era, poi ritornavo a riprendere l’usato.

Fu appunto in questo periodo d’assenza di zia Pierina che accettai di portare con me Rocco e Toto, col patto che mi venissero dietro in silenzio e senza far rumore.

Così,  quando fu l’ora, feci segno ai due ‘nguattati  (nascosti)

piazzetta, e salimmo tremebondi le due rampe fino al piano delle Capitanio. Io mi assicurai che la porta fosse chiusa e il cucinino vuoto e così attaccammo la scaletta di legno: io avanti col vassoio e loro dietro col cuore che batteva forte.

Eravamo a metà salita quando la porta si aprì violentemente e apparve zio Peppe sanguigno, con la benda sugli occhi, dando bastonate furenti sul mignano della scala e gridando rauco ed esaltato:

− Non riuscirete a uccidere Matteotti! Cani non ci riuscirete! Vi ammazzo tutti! –

I due dietro di me precipitarono dalla scala; uscirono le Capitanio con gli occhi spiritati; io che gridavo a mia volta:

─ Sugnu eu, ziu, sugnu Francúcciu, vi portavi u mangiari! – (Sono io, zio, sono Francuccio, vi ho portato da mangiare! )

Salì mio padre, incontrò i due terrorizzati a fondo scala, capì tutto e prese in mano la situazione.

Gli parlò con calma, pacato e conciliante:

─ Carmátivi, don Peppinu, sugnu eu, Gegnu: nuju vi voli mali, carmátivi! ─ (Calmatevi, don Peppino, sono io, Eugenio: nessuno vi vuole male, calmatevi! )

Così il pazzo rientrò, papà mi prese di mano il vassoio con un’occhiataccia e lo consegnò lui e così l’episodio finì con una delle sue filippiche a doppioni:

─ Mascalzone lordiliti, brigante malnato, farabutto zulù…! Ma no’ sai ch’è pacciu? Ca si t’ammazza mancu ti paga? ─ (Mascalzone, orditore di liti, brigante malnato, farabutto zulù… Ma non lo sai che è pazzo? Che se t’ammazza manco ti paga?)

Poi sentii lui, la mamma, le Capitanio che erano scese di furia a conciliabolo: si decise di scrivere a Nicotera e declinare ogni responsabilità. E fu così che zia Pierina rientrò a Roccella.

 

*   *   *   *

 

Noi ragazzini giocavamo in piazzetta e negli slarghi della Stazione, attorno alla Piccola (deposito merci), fin giù al Personale Viaggiante, alla Provvida, lo spaccio dei ferrovieri e da qui uscivamo nella piazzetta del Dormitorio.

Eravamo in guerra aperta coi due militi ferroviari che ci inseguivano perché noi spiombavamo i merci per recuperare il piombo che squagliavamo e gettavamo liquido nell’acqua dove solidificava assumendo le forme più strane.

Insieme a Rocco, a Rino, a Nello, a Franco Cremona e Toto Zito e il figlio del capostazione di turno andavamo anche a giocare nel giardino di Vici Di Bianco, all’interno dei vicoli del Misóstraco.

Vici abitava in una casa strana. Dalla strada si vedeva soltanto un alto muro di cinta con un doppio portone in lamiera.

Dentro però c’era un ampio giardino con palme, banani e un abete gigantesco con sotto una vasca con pesciolini.

Dietro la casa si apriva un altro spiazzo più grande con una stalla dove teneva un cavallo.

Naturalmente noi ambivamo, a memoria dei Seminole di Tex, ad imparare a cavalcare e tremebondi salivamo in groppa a turno. Quando toccò a me, fantasioso già da allora, non mi contentai di andare come gli altri, ma legai alle caviglie le redini per cavalcare a pelo come gli Indiani.

Il cavallo era per sua natura docile, ma io mi diedi a scalciarlo coi talloni per cui prese il trotto e si diresse aumentando la velocità, verso la stalla.

Era questa un ampio locale con due porte: una grande e una piccola di servizio. Il cavallo entrò dalla grande e voleva uscire dalla piccola ed io mi accorsi con terrore che era bassa e lui, forse, ci sarebbe passato, ma non certamente io.

Mi guardai intorno in cerca di salvezza e vidi sopra di me dei trapezi appesi alle travi con panieri, stracci e altro. Mi attaccai a uno di essi, dimenticando che avevo scriteriatamente legato

le redini alle caviglie e mi trovai col cavallo che tirava e io appeso a gridare con forza.

Arrivò Vici e gli altri e fermarono il cavallo prima che mi squartasse.

Con Rocco, Rino e Franco Muscolo, il figlio del capostazione, non leggevamo soltanto di calcio, ma aspettavamo con ansia il “Corriere dei Piccoli”.

Già dopo qualche giorno dall’uscita del numero, tormentavamo il povero Lia con stressanti richieste dell’altro. Intanto guardavamo i fumetti: Ragar prima di tutto, poi l’Uomo Mascherato, Mandrake, Topolino e Paperino, Tex Willer, Fulmine, il Piccolo Sceriffo, Black Macigno e altri.

Del Corriere io ero Tamarindo, Franco il Capitan Cocoricò e Rino il piccolo Marchese e cercavamo di ripetere le gesta dei nostri eroi trasferendole dall’Africa Nera alla Piazzetta e al giardino di Vici Di Bianco.

Poi tornavamo a giocare in  Piazzetta.  Qui  sostavano gruppi di cavulognisi che aspettavano il Postale di Caulonia,fermo in attesa dei treni, invadendo così il nostro regno esclusivo e privato. Noi disprezzavamo i cavulognisi perché non sapevano nuotare, vestivano alla tamarra e parlavano c’u ‘ngusciu. Aspettavamo che qualche gruppo si sedesse sul bordo della fontana e li aggiravamo, quindi, dietro, immergevamo le braccia nell’acqua fino ai gomiti e iniziavamo insieme a scuoterla in silenzio, fino a provocare l’onda. Questa saliva senza rumore e inondava pantaloni e sederi dei malcapitati.

Scappavamo già prima nella stazione e attraverso la Sala d’Aspetto varcavamo, serrandola, una porticina ed eravamo nel portone di Franco a goderci, attraverso una finestra dai vetri polverosi, lo spettacolo di  quei tangheri che cercavano di asciugarsi l’un l’altro coi fazzoletti e si guardavano ebeti, attorno, cercando di capire cosa fosse successo.

Con Rocco fummo compagni di scuola fino alla quinta ginnasiale, ripetendo anche assieme la quarta.

Fu in quest’ultimo anno, d’estate, che mi scontrai con suo fratello Armando.

Avevo da poco comprato le attrezzature subacquee dietro la spinta emotiva del film-documentario Mondo Sommerso, che ci aveva mostrato, per la prima volta a colori, le bellezze di questo universo sconosciuto, anche perché a Siderno un commerciante di articoli sportivi aveva messo in mostra irresistibili i fucili, le maschere, respiratori e pinne.

Armando, più piccolo di me di tre anni, aveva raccolto attorno a sé una banda di mocciosi del suo stampo: erano dieci, dodici e qualche volta anche di più. Li avevo visti all’opera.

Tutta la banda stazionava, crogiolandosi sulla sabbia calda, finchè non vedevano qualche bagnante isolato, allora tutti assieme, al grido di guerra:

─ Testa i vacca,                     ─ Testa di vacca,

adduvi pigghja spacca;          dove prende spacca;

testa i vajetra;                         testa di vitello,

adduvi pigghja ‘mpetra! ─     dove prende solidifica! ─

si gettavano in acqua, circondavano il malcapitato e giù calate a mani e piedi. La calata consisteva nell’afferrarlo per le spalle e spingerlo sott’acqua prima con le mani e poi ancora più giù con i piedi. Appena la vittima tornava a galla, gli davano il tempo di respirare una sola volta e giù di nuovo.

Il supplizio durava finchè Armando non dava il segnale di fermo, alzando il braccio. Il bagnante, mezzo affogato, con gli occhi rossi, tossendo e risputando l’acqua che aveva bevuto,

riguadagnava a fatica la spiaggia.

Loro tornavano sulla sabbia in agguato, aspettando un’altra preda.

Li avevo visti all’opera e mi ero proposto di stare attento, tanto con le pinne li avrei distanziati in un attimo, ma in caso mi avessero attaccato, decisi come comportarmi.

Orbene, Chitichirri padre, il pescatore santantonaru, aveva calato le rizzille tra S. Antonio e Zirgone.

Erano queste delle reti che venivano messe in acqua e dovevano rimanere verticali sul fondo, trattenute in basso da piombi e sollevate in alto da sugheri. I pesci non s’avvedevano dell’insidia e così rimanevano impigliati.

Il giorno dopo, con comodo, il pescatore con la barca ritirava le reti e, quasi senza fatica, sganciava i pesci che erano rimasti impigliati.

I subacquei visitavamo le rizzille dall’alto cercando i pesci, ben visibili con la maschera. Se c’era qualche preda degna, scendevamo cauti e attenti a non lasciare tracce rovinando la rete e ci appropriavamo illecitamente del lavoro altrui. Ma allora di questo non ci rendevamo conto.

Mentre ero tutto intento a scrutare il fondo, non mi accorsi della banda di Armando e mi trovai circondato. Ormai non potevo più attuare il piano di fuga A e quindi mantenni la calma e mi affidai al piano B. Quando quelli dietro di me mi calarono con forza giù, non riemersi nel cerchio come loro si aspettavano, ma raggiunsi il fondo, guardai in alto con la ma schera e individuai Armando, gli emersi alle spalle e me lo portai giù.

Ora ero nel mio regno. Sott’acqua ero capace di resistere anche tre minuti senza respirare; tiratolo giù, lo abbrancai fermo tra le gambe e gli detti un bel colpo sul naso, che subito schiattò a sangue: Armando, lo sapevamo tutti, era detto “U Cacasangu” proprio perché aveva i capillari deboli nel naso.

Lo riportai su che sembrava un tricheco ferito. Quando aprì la gargia per respirare, bramoso di ossigeno, gli spruzzai una generosa palmata d’acqua di mare, giù nel profondo e mentre lui scatarrava, tossiva e cercava di tenersi il naso, ne afferrai un altro e andammo sotto. Quando riemersi, non vidi che gambe scalciare terrorizzate verso riva. Da quel giorno la banda di Armando si sciolse e io dopo qualche giorno mi ebbi un rabbioso:

− Assassino! Sanguinario! – da parte di mio padre cui il meccanico era andato a fare le sue rimostranze.

Dopo qualche mese don Giulio Arteritano trasferì tutta la famiglia a Bologna dove aveva trovato un posto di lavoro.

E fu così che non seppi più niente di Rocco, il dolce amico d’infanzia e di prima giovinezza, tifoso della Juventus ed esperto di calcio.

Panorama di Roccella Jonica

Panorama di Roccella Jonica

I ragazzi di piazza stazione – Storie di mare

copertina i ragazzi di piazza stazione

copertina i ragazzi di piazza stazione

PREFAZIONE

Era prevedibile. Il grande amore di Francuccio per la sua terra, per gli amici, per la famiglia e un innato desiderio di raccontare, sono stati ancora una volta lo stimolo per scrivere questo secondo libro di racconti paesani che, con emozione e qualche venatura di tristezza, ci richiamano ad un passato che il tempo inesorabile, irrimediabilmente, getterebbe nel dimenticatoio. I racconti di Francuccio, infatti, sono storie vere, storie di personaggi che vissero negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale: gli anni della povertà, delle privazioni, del vivere con fiducia l’attesa di un futuro migliore, della ricostruzione, dei primi albori della nuova tecnologia, del benessere. Storie di vite vissute che nulla hanno di eroico o di particolare se non la tipicità dei personaggi che proprio per loro caratteristica o per la singolarità di quanto loro accaduto, rappresentano uno spaccato di vita paesana mediante il quale il lettore coglie un “modus vivendi”, sopito nella memoria di un anziano, completamente sconosciuto al giovane di oggi. Storie che, nonostante la loro semplicità, il loro marcato sapore di un vivere quotidiano tipico del tempo in cui sono ambientate, nel richiamare alla memoria fatti, sentimenti, emozioni che il tempo ha solo nascosto e non cancellato, invitano ad una profonda e seria riflessione: stiamo perdendo la nostra identità? Probabilmente no. Stiamo solo correndo e, oggi, “chi si ferma è perduto”. Siamo sempre quelli di un tempo che, con fermezza e volontà, stiamo dietro un incalzante progresso che in pochissimo tempo ha stravolto le nostre abitudini e la fisionomia stessa del nostro paese. Quello che è stato, forse per un’intima frustrazione, non riusciamo a trasmetterlo ai nostri figli i quali devono sapersi inserire nel tempo in cui vivono a pena di rimanere esclusi.

Ma la vita va guardata in faccia, con serenità, quella che è stata e quella che è.

La conoscenza del passato prossimo, reso praticamente remoto dalla stravolgente rapidità degli eventi, resta, tuttavia, la condizione indispensabile per conoscere e interpretare il nostro presente.

I racconti di Francuccio, che in questo secondo volume si presentano in un’ambientazione più corale rispetto al primo, con la piazza, lo slargo, il muretto da sfondo, ci ricordano un passato a noi vicino in cui preminente era la condizione di povertà della gran parte delle famiglie intimamente legate da una “humanitas” intrisa di “pietas” che oggi difficilmente si riscontra, sostituita da un chiaro ed evidente individualismo personale e famigliare dovuto certamente alla mancanza di quel contatto, quasi fisico, quando tutto si svolgeva nella “ruga”, nei quartieri, nei bar, nelle “cronghe” dei giovani, nei crocchi degli anziani, al chiuso delle molte bettole del paese, alla fontana.

Quel sorriso bonario e, a volte divertito o ironico, che emergeva in quasi tutti i racconti del primo volume, presente ancora in buona parte in questo secondo lavoro, sovente lascia il posto ad una coinvolgente e pensosa riflessione su episodi che il Fato ineluttabilmente ha reso tragici e che inevitabilmente sarebbero stati dimenticati se l’ottima penna di Francuccio non l’avesse impressi sulla carta per essere consegnati ”ai Roccellesi che verranno”. E così, inevitabilmente coinvolti, proviamo noi l’ansia, il freddo e la paura di Ceciu u Tarì, siamo noi a calare “giù sempre più giù” nella Fossa di Pracariti, siamo noi a “tirare, tirare” l’odiato “prudisi”,  scalzi, affamati, vuoti, infreddoliti e bagnati insieme a Micu Mangiacasu e Damiano Valastro, a scuoterci dentro per la fine di Rinaldo “Flora” improvvisa e inaspettata come “na sperzata i libici” e a quella incredibile, se non fosse vera, di “Cola d’u Colau”. Ad un giovane di oggi che ha fatto del consumismo la sua bandiera e che va dietro alle mode mutevoli ed alle “firme”, apparirebbe inverosimile che una ventina di persone, disperate, siano tornate in spiaggia di notte, con le lanterne, a cercare una scarpa, una misera scarpa rossa. Chiaro, dunque, l’intento dell’autore: quello del palesare realisticamente la condizione di povertà in cui si viveva nel primissimo dopoguerra quando andare scalzi era la regola, non l’eccezione. Sarebbe, dunque, un errore leggere questi nuovi racconti di Francuccio con superficialità, seguendo il fatto e il personaggio, perché ogni racconto, ogni sequenza non è messa a caso, ma si muove su uno sfondo che rimanda a riflettere sul fatto che si tratta di frammenti di vita veramente vissuta in cui, le emozioni e i sentimenti che si nascondono sotto le parole, racchiudono un preciso messaggio: l’uomo è figlio del suo tempo se mantiene viva la memoria del suo passato.

In un mondo che vive sull’avere, sulle discoteche, sui telefonini, le macchine, la televisione e l’apparire a tutti i costi, che cosa può giovare una raccolta, quasi anacronistica, di storie, viste e vissute, episodi spariti e vicende quasi dimenticate?

A chi possono interessare queste storie di paese dalle quali emergono i nostri giochi da adolescenti, i nostri scherzi paesani, i nostri timori, le nostre paure, le nostre speranze, i nostri sogni?

“Ai Roccellesi che verranno” appunto, per non dimenticare.

In questo libro, infatti, si trova l’essenza, l’anima del nostro essere paesani che è importante conoscere per non perdere la nostra identità, non diventare una comunità senza volto e impedire che la povertà o la miseria economica dei tempi passati diventi oggi povertà intellettuale, miseria di idee, di progetti, di prospettive.

Gli avvenimenti sono scritti con un linguaggio efficace e molto semplice, al punto da sembrare, in alcuni tratti, anche scorretto, ma sembrerebbe che un’eccessiva correzione potesse solo compromettere la genuinità del racconto e, con essa, anche il senso.

Come spiega Francuccio già nei primi “Racconti”, anche questo secondo libro è stato pensato in dialetto roccellese. La “traduzione” in italiano è stata una mal sopportata necessità. Dove è stato possibile è rimasta la sintassi del dialetto, le sue cadenze, le sue semplicità e le sue sovrabbondanze, una lingua senza congiuntivi e senza futuri.

Anche nel presente volume il dialetto permane immutato e godibile nei dialoghi diretti, sferzante e immediato come “na ‘rigata i ventu”.

Pino Alvaro

 

 

Roccella Jonica - stazione ferroviaria con vaporiera -anni '40

Roccella Jonica – stazione ferroviaria con vaporiera -anni ’40

Via Roma - Ristorante Flora

Via Roma – Ristorante Flora

 

CAMPIONATO RIONALE ESTIVO LA “MATTEOTTI”

A sedici anni me ne andai dall’Azione Cattolica. Da quando Franco Cremona, anni prima, mi aveva fatto conoscere i Romanzi d’Urania, questi mi aprirono la mente verso una visione dell’Universo molto più ampia di quanto la religione mi porgeva. Alla luce delle teorie di Asimov, Brown, Simak, Clark e Russel, per farla breve, un Universo con l’Uomo al Centro e la sua salvezza come unico scopo, mi sembrava una risposta ridicola e riduttiva. Non fu facile: lì avevo tutti i miei amici, lì mi ero realizzato con la nomina a Delegato Stampa e la direzione del giornale murale; lì avevo imparato a giocare a dama, a scacchi, a pallacanestro…

Poi Rocco Schirripa più grande di me mi schiaffeggiò due volte. La prima per un fallo durante una partita, la seconda per uno scherzuccio innocente, (arrivando, avevo chiuso e aperto la luce, come per fare una fotografia).  La prima volta lo avevo detto a Nello Caridi, il nostro capo (nel frattempo, tanto per non restare in debito, ‘nci fringai ‘u cappottu c’u ‘na lametta (gli tagliuzzai il cappotto con una lametta ); la seconda girai sui tacchi e me ne andai, deciso a dar fuoco alla baracca, dolosamente, di notte.

Fu così che mi avvicinai ai Socialisti.

La sede era a S. Antonio, più o meno all’incrocio con vico Celano, sullo sventramento, vicino al Montparnasse di Nicolino.

In estate uscì un manifesto affisso in tutti i bar: il Centro Sportivo (dell’Azione Cattolica) avrebbe organizzato un torneo di calcio rionale: seguiva il Regolamento. Venne a trovarci in sede Gatanino, un giovane maestro, responsabile della sezione e ci propose di partecipare: ci avrebbe fornito le magliette e il ragionevole fabbisogno. Prendemmo tempo, io e Annibale Tipaldo, gli unici due della sezione capaci di poter organizzare una squadra. Ci muovemmo subito e reclutammo Nicolino i Maraciciglia, anch’egli fuoriuscito dall’ACI perché non lo avevano preso in squadra per far posto ai forestieri. Il Regolamento era molto semplice: poteva essere inserito in squadra chiunque, professionista o forestiero, purchè non avesse giocato con altra squadra del torneo. Tutti cercavano di accaparrarsi i giocatori migliori, anche pescando negli organici del Siderno, del Locri, squadre di serie superiore. Avvicinai quindi i cugini Sandro e Nando ‘Mbilla, formidabili difensori, specialmente il secondo.

Intanto nei bar si rincorrevano le voci: il Centro Sportivo si era accaparrati i fratelli Caracciolo del Siderno e Chianese U Russi del Locri; u Vaiuni (Il Vallone della Rena, oggi coperto come via Trastevere) aveva già nelle sue file Franco i  ‘Mbemba, Sarino Bella, Regliu u Biondu del Roccella… Zirgone: Vici Gilio, Vici Sposari, Rogolino… tutta gente di rispettabile levatura e nel giro della prima squadra. I più miseri eravamo noi.

Poi si iscrisse il Borgo, l’altra Azione Cattolica, un’incognita: erano tutti forisi, cioè gente che lavorava nei campi, forte e nerboruta. Ci accaparrammo Pippo Favoino, rubandolo alla Dogana, ma ancora eravamo a terra: non avevamo portiere, non un regista di centro campo, due soli difensori…

Decisi di andare a Gioiosa con Annibale. Qui conoscevo bravi giocatori coi quali disputavamo delle partitelle a Locri, in attesa del trenino o durante le ore di Educazione Fisica. Contattai Gigino Condemi longilineo, tecnico, bravo sia di testa che di piede: era il regista che cercavo. Accettò e insieme andammo a trovare Enrico Salomone, un’ala guizzante e insidiosa. Prospettammo il problema del portiere. Lo conoscevano. Era Totò Criniti, ma non era a casa.

Rientrammo a Roccella lasciando a loro il compito di trovare altra gente. Gigino aveva il telefono e anch’io lo avevo: ci saremmo sentiti. Sul treno eravamo molto rinfrancati: certamente non eravamo all’altezza del Centro Sportivo o d’u Vajuni, ma potevamo  rassicurare  Gatanino  che  la  squadra c’era.

Il giorno dopo mi telefonò Gigino dicendomi che aveva trovato due ottimi difensori: sarebbero arrivati tutti nel pomeriggio con le biciclette per una sgambata sul campo. Avevano anche il portiere. Così iniziammo l’avventura.

Si erano iscritte sei squadre: Centro Sportivo, Borgo, Vajuni d’a Rina, Dogana, Zirgone e noi, Matteotti (Rione S. Antonio).

Nel pomeriggio avemmo modo di apprezzarli, specialmente Totò, il portiere: sembrava un gatto, aveva una presa sicura, un’agilità e una sicurezza da professionista; anche gli altri due ci piacquero: Cecè Femia e Peppe Belcastro, grintosi e tecnici.

Peppe Belcastro usava i parastinchi: era la prima volta che li vedevo e i ragazzini si davano la voce e accorrevano quando li indossava.

Ci demmo i ruoli, così a canovaccio: Totò in porta, Cecè e Peppe terzini, Annibale, Sandro e Nando nella linea mediana, Nicolino centravanti, Enrico a destra e io a sinistra, Gigino, Pippo dietro le punte; Rino Sirtore, Nino Chiefari e Valerio di rincalzo.

Si aprì il torneo con l’incontro Centro Sportivo – Zirgone. Prevalse il Centro Sportivo per due a zero. Annichilimmo nel vedere all’opera il maggiore dei Caracciolo e U Russu: il secondo proponeva e il primo realizzava. Da soli tennero inchiodata la difesa e i mediani del Zirgone nella loro metà campo: le punte rimasero così isolate e prive di rifornimenti.

Per la seconda partita sarebbe toccato a noi, contro il Borgo. Ci arrivarono intanto le magliette bellissime, nerazzurre dell’Inter: calzettoni nerazzurri e pantaloncini neri. Decidemmo di non indossarle per gli allenamenti come facevano le altre squadre, ma riservarle per la partita. Giocammo di giovedì, c’era un po’ di vento; ci schierammo, baldanzosi e magnifici contro gli avversari in maglia celeste e striscia gialla.

Arbitrava Peppi u Pujitru (Il Puledro) bravo e competente, senza guardalinee. Di comune accordo tutte le squadre, avevamo eliminato il fuorigioco e giocavamo così, liberi senza schemi, seguendo l’istinto e cercando gli spazi. Li stringemmo subito perché quando noi avanzavamo eravamo supportati dai centrocampisti: Nibuli, Pippo e Gigino non ci lasciavano mai soli; lo stesso in difesa, ripiegavano quando era necessario e dando aiuto anche dietro. Segnammo al quarto d’ora.

Gigino avanzò, si bevve un avversario e appoggiò in verticale a Nicolino che infilò di precisione nell’angolo di sinistra. Continuammo a macinare il nostro gioco. Io dialogavo stretto con Pippo dietro, Gigino al centro e Nicolino in avanti; così faceva Enrico sulla destra con Nibuli, Nando e Pippo. Segnò ancora Enrico, stringendo in diagonale e infilando la palla di prepotenza tra palo e portiere. Finì il primo tempo e ci portammo soddisfatti nel nostro angolo, all’ombra dei fichidindia (non c’erano spogliatoi). Ci complimentammo a vicenda e ci demmo coraggio con grandi manate sulle spalle. Riprendemmo.

Andai a battere un calcio d’angolo. Il portiere s’era piazzato sul primo palo, Angelo Cardara sul secondo. Gigino mi chiedeva palla con grandi gesti ma io sentii il vento e ricordai una prodezza di Destito della Reggina: calciai lungo, alto sul secondo palo, fidando nel vento. La palla passò su tutti, arrivò al limite della traversa, perse forza e il vento la mise dentro.

La gioia, i complimenti, gli abbracci dei compagni sono cose inenarrabili. Poi segnò ancora Nicolino di testa, avvitandosi su un cross di Enrico dalla destra. Sul finire tirammo un po’ i remi in barca e segnarono anche loro con Vici Zinagra. Finì 4 a 1 per noi e festeggiammo in sede con gassose  al caffè e poi i nostri amici partirono in bicicletta, così come erano venuti.

Continuò il torneo: si giocava giovedì e domenica. Il Centro Sportivo liquefece la Dogana per 6 a 0.

Sembrava un rullo compressore, forte in ogni reparto. Zirgone superò u Vajuni per 2 a 1 e quindi toccò a noi contro la Dogana. Questa si era dimostrata la cenerentola del torneo ed eravamo sicuri di farcela con facilità.

La mattina dell’incontro piovve molto. Quando arrivammo al campo era allagato e tirava vento. L’arbitro, di Siderno, ci convocò e ci fece notare che metà del campo era impraticabile ma l’altra metà lo era molto meno: si poteva sistemare una porta delimitata da pietre a metà campo e giocare così la partita; dovevamo essere d’accordo entrambe le squadre, altrimenti rinviare a sabato. Convocai i miei. Totò ed Enrico – seppi ora che erano cugini – sabato dovevano andare a Paola per un matrimonio e non ci sarebbero stati. Accettammo di giocare in metà campo, con una sola porta con pali e rete e una delimitata da pietre, lasciando alla facoltà dell’arbitro di giudicare a suo libito l’alto, il palo, la traversa oppure il goal.

Iniziammo l’incontro a favore di vento e contro la porta buona. In metà campo fummo subito in difficoltà: non riuscivamo a trovare gli spazi, loro si difendevano ma l’area di rigore era un carnaio. Il vento, che soffiava a folate, deviava le traiettorie, non riuscivamo a centrare i passaggi. Segnarono loro: Nuzzo Spanò puntò Cecè Femia, questi scivolò in una pozzanghera e Nuzzo insaccò sotto Totò, in uscita tardiva. Finimmo il primo tempo in svantaggio per la prima volta, in più avremmo avuto ora il vento contrario e la porta dimezzata: eravamo sicuri che se non l’avessimo infilata proprio sotto le gambe del portiere il sidernoto non ci avrebbe dato il goal. Ci facemmo coraggio e iniziammo. Nibuli effettuò una rimessa laterale e servì Gigino, questi si girò, portando a spasso il suo avversario, poi servì Pippo che scartò, vide Nicolino che si smarcava al centro, lo servì e pareggiammo.

Il goal ci diede forza: galvanizzò noi e depresse gli avversari. Ormai sforavamo da destra con Enrico e da sinistra con me, supportato da Pippo e Gigino.

Due volte sfiorammo il goal, con Nicolino e con Enrico. Eravamo alla mezz’ora e sentivamo che il goal era vicino, ma bisognava farlo.

Gli avversari urlavano e si sbracciavano, dandosi le marcature e adirandosi fra loro. Enrico scese sulla destra, la passò a Nicolino che gli andava incontro. Egli diede a intendere di volerla restituire a lui e si portò dietro tutta la difesa avversaria. Io seguivo l’azione, libero, sulla sinistra. Nico mi vide con la coda dell’occhio e mi servì di tacco. Mentre avanzavo mi vidi la palla davanti e tutta la porta spalancata. Pensai subito due cose: non troppo vicino al palo-pietra sennò me lo annullano e non troppo rasoterra che non si blocchi in qualche pozzanghera. Colpii di piatto. Il portiere, il gigantesco Sava, si gettò alla disperata, ma quando arrivò la palla era già passata. Mi subissarono, mi gettarono nelle falacche (Pozzanghere argillose), tutti sopra di me. Felicità pura. Finì 2 a 1. Ma quanta sofferenza.

Il vento era rinforzato ed eravamo preoccupati per i nostri amici che dovevano rientrare a Gioiosa in bicicletta. Già dal campo alla Sede fu una fatica.

Festeggiammo insieme ai nostri numerosi supporters e poi partirono.

Li guardammo arrancare con fatica, curvi e scomparire in mezzo alla polvere.

A sera telefonai a Gigino. Mi disse che si erano ammazzati e che con le biciclette non sarebbero venuti più: se li volevo dovevamo pagargli il biglietto del treno. Andai da Gatanino e gli prospettai il problema. Dovette accettare; richiamai Gigino per tranquillizzarlo.

La domenica successiva Zirgone e Borgo pareggiarono 2 a 2. Nella partita di giovedì il Centro Sportivo superò il Borgo con un secco 3 a 0. Quindi toccò a noi col Vajuni.

Li avevo visti giocare e attaccavano con una sola punta: i difensori rinviavano “a morimamma” (A casaccio) e Sarino se la doveva vedere da solo là, davanti. Cecè non arrivò: aveva la febbre.  Al suo posto misi Rino e partimmo con l’intesa  di  stare 

più coperti sulla destra, raccomandando a Pippo di stare sempre dietro e non seguirmi. Atterrammo Sarino in area ed egli stesso tirò il rigore: niente potè fare Totò contro la briscola secca e precisa. Continuammo a giocare alla nostra maniera, un po’ allungati sulla destra e un po’ contratti sulla sinistra. Anche noi ottenemmo un rigore e Gigino lo realizzò con freddezza.

Poi passammo in vantaggio col solito Nicolino con una rovesciata in area da funambolo e finimmo in vantaggio il primo tempo. Segnò subito Enrico su appoggio di Nibuli e ancora Nicolino su mio servizio in profondità. Sul 4 a 1 segnò ancora Saro su azione personale e vincemmo 4 a 2.

Domenica non si giocò perché il campo serviva alla prima divisione. Giovedì Zirgone superò la Dogana per 2 a 0. Domenica avevamo il Centro Sportivo.

Nell’attesa fu subito guerra dei nervi con i miei ex commilitoni.

− Vi facimu stuppa!  − (Vi faremo stoppa -vi sfilacceremo!)

Mi sibilò sicuro Nicolinu U Fruntuni dinanzi al bar ‘900. Poi lo sentii proclamare nel suo crocchio con Rocco Schirripa, Angelo Muraca e Cecio Fascì:  − 4 golli vogghju u m’ascialu mu ‘nci signu sulu eu! − (4 gol  voglio scialarmi e segnarli soltanto io! ) Ma sapemmo che Pascali d’a Turri e Gatano Grollino erano andati a Locri a cercare rinforzi. Domenica aspettammo gli amici al treno, passammo dalla sede e ci facemmo coraggio:

− D’u restu – disse Nibuli Tipaldo – sunnu i carni e ossa comu a nui – (Del resto sono di carne e ossa come noi ).

Decidemmo di giocare la nostra partita come sempre: col solito apporto dei centrocampisti avanti in attacco, rientrando in difesa e di mettercela tutta.

Arrivammo al campo sereni e rinfrancati. Loro erano già arrivati con le  macchine ed erano pronti nelle loro maglie bianconere. Non vedemmo facce nuove. Ci sistemammo, ci sgambammo e l’arbitro, di Caulonia – Mimmo Albanese – mio ex compagno di scuola al ginnasio, ci fece partire. Cominciarono forte, volevano finirla subito, ma la nostra difesa teneva e non ci facemmo imbottigliare come avevano fatto le altre squadre prima di noi, quindi dovettero tenere dietro la difesa perché noi dell’attacco non ripiegammo d’un metro. A lungo andare si spezzarono in due, mentre noi macinavamo il nostro gioco.

La partita era equilibrata; rispondevamo colpo su colpo. Ebbero alcune occasioni loro ma Totò era in giornata di grazia, e anche noi sbagliammo di poco, una con me che mi vidi parare un tiro a colpo sicuro e una con Enrico che tirò fuori da pochi passi. Andammo al riposo sullo 0 a 0. Nessuna squadra del torneo aveva fatto tanto.

Dissi:

− Roccu Schirripa è cottu: rantula tutti i sigaretti chi si fumau. Penzu ca da jà potimu fari ‘ncarcosa – (Rocco Schirripa è fatto, ha corso come un matto e senza costrutto e rantola tutte le sigarette che ha fumato. Penso che da quella parte possiamo osare qualcosa ).

E ammiccai a Nando e Pippo Favoino. Anche il Caracciolo non aveva ricevuto molti palloni giocabili ed era costretto a ripiegare a centro campo: doveva essere stanco e chiesi a Nando di avanzare gradatamente.

Ripartimmo. Fu battaglia i primi dieci minuti. Loro s’intestardivano picchiando in centro, cercando Caracciolo: sulle fasce sia Rocco Schirripa, sia Giorgio Tirone, giravano a vuoto. Avemmo due belle occasioni da rete ma le sciupammo per troppa veemenza. Anche Totò fu impegnato seriamente.

Poi cominciarono a calare e allora feci segno a Nando e Sandro di avanzare. Arrivammo alla prima mezz’ora e la partita era ancora aperta: chi avrebbe segnato avrebbe vinto. Ci fu un calcio d’angolo dalla parte di Enrico. Egli, intelligentemente, appoggiò indietro a Sandro che era avanzato: trovò spazio sulla destra, avanzò mentre Enrico si accentrava, arrivò sul fondo e crossò; U Ghizza respinse corto, si accese una mischia furibonda. Per due volte tirammo e per due volte i tiri vennero respinti. Poi vidi la palla alzarsi a campanile in mezzo all’area e sulla ricaduta una specie di Pinocchio nerazzurro saltare al di sopra delle teste di tutti, aprirsi in forbice aerea e la palla che entrava squassando la rete avversaria.

La nostra gioia fu incontenibile. Corremmo come pazzi incontro a Nico, lo sommergemmo, iniziammo un carosello intorno al campo, incontro ai nostri tifosi impazziti. Il fischio dell’arbitro ci riportò al centro.

− Mò, a morimamma! (Adesso anche a casaccio!) − Li incalzai.

Fu battaglia, ma scomposta e disordinata; attaccavano alla cieca ma ormai stanchi e senza lucidità. Ci difendemmo con ordine, mandando anche la palla sulla ferrovia quando fu necessario. Al triplice fischio ci abbracciammo ancora, gongolando nel vedere i nostri avversari sparsi per terra con gli sguardi vuoti. Festeggiammo con gelati, generosamente offerti da Gatanino che finalmente si era deciso a venire a vederci giocare.

Eravamo a punteggio pieno: quattro partite, otto punti. Allora per la vittoria si avevano due punti e uno per il pareggio, non erano ammesse sostituzioni e gli attaccanti facevano gli attaccanti, i difensori i difensori e i mediani coprivano il centrocampo: era un calcio molto più semplice e piacevole.

Domenica u Vajuni superò la Dogana per 2 a 0. Giovedì non si giocò. Poi il Centro Sportivo superò u Vajuni per 3 a 2 ma i due Caracciolo non erano più venuti: c’era stata maretta grossa dopo la sconfitta. Il Borgo pareggiò con la Dogana 2 a 2. Restava una sola partita da giocare: noi contro Zirgone. Avevamo otto punti, il Centro Sportivo sei (ma aveva terminato gli incontri) e Zirgone cinque. Seguivano le altre formazioni.

Con tre punti di distacco sulla seconda e una sola partita da giocare, avevamo vinto il torneo.

All’uopo mi feci cucire da mia nonna un passante per ogni pantaloncino che avevo, al fine di appendervi la medaglia che ci avrebbero consegnato.

Venne a trovarmi Nibuli Tipaldo, allegro come una fila di cipressi a novembre, a informarmi che il Centro Sportivo si era ritirato dal torneo e che a noi avevano tolto due punti. Lo guardai allibito, incredulo, come ritirati, loro avevano giocato tutte e cinque le partite in calendario. Poi capii. Soltanto noi avevamo vinto contro di loro e quindi il loro ritiro danneggiava soltanto noi. Non potevano permettere, loro papisti che un loro torneo venisse vinto dai marxisti, mangiapreti e rossi stalinisti. Allora il mondo era nettamente diviso in due blocchi contrapposti: Comunismo e Capitalismo e anche una partita di calcio rionale in una sperduta zona periferica rivestiva l’importanza di un 38° parallelo.

Andammo a trovare Gatanino e gli prospettammo la situazione. Decise di inoltrare ricorso scritto sostenendo le nostre ragioni. Io e Nibuli eravamo del parere di ritirarci anche noi e di smerdijarli; certamente Zirgone, terzo arrivato, non avrebbe accettato le medaglie o se lo avesse fatto sarebbe stata sempre una vittoria mutilata. Gatanino inoltrò il ricorso.

Fu rinviata la partita con Zirgone in attesa della decisione. Ci convocarono per la discussione. Andammo in tre, con l’intesa che avrebbe parlato soltanto  Gatanino. Io sapevo che non avremmo risolto niente: li conoscevo bene i marpioni che avevano architettato la vigliaccata. Ci ricevettero con esagerata gentilezza.

L’Azione Cattolica era situata in una bella baracca di legno, posta a lato della chiesa Madre, là dove adesso c’è la stradella. Aveva un’ampia sala all’ingresso con dei tavoli, un calciobalilla, una libreria in un angolo: alla parete ancora l’ultimo numero del mio giornale. Ci fecero accomodare nella saletta laterale, la saletta del Cenacolo, dove ci riunivamo ogni sabato tutti i capi sezione per riferire e programmare. Ancora una libreria piena di libri: li avevo letti tutti, qualcuno più di una volta.

Prendemmo posto. Al muro, come giudici, Pascali d’a Turri, certamente l’ideatore del cavillo; a lato Rocco Schirripa, poi Angelo Muraca e Gatano Grollino.

Lessero il reclamo e lo rigettarono subito: a luce del regolamento, ogni squadra poteva ritirarsi “prima della fine del torneo, senza pretendere rimborso alcuno delle quote di partecipazione versate”. Gatanino sosteneva che ”per loro” il torneo era finito in quanto avevano disputato tutte le cinque partite previste. Loro obiettavano sornioni e sicuri nella loro posizione di giudici e di controparte, che il torneo non era affatto finito, tant’è che mancava ancora una partita da disputare. Avevano il coltello in mano ed erano decisi di usarlo, formali fuori ma gongolanti e inflessibili all’interno. Uscimmo.

Supplicammo ancora Gatanino di seguire il nostro consiglio perché sapevo che la cosa non era finita lì, li conoscevo bene: ci avrebbero messo un arbitro loro, capace di punirci col rigore a metà campo, di annullarci le reti, di cacciarci fuori. Non avevamo speranza. Meglio uscire ora, con onore. Fu inflessibile. Anche lui, abbacinato dai tre punti di distacco, si era sbilanciato con la stampa, coi superiori e non poteva rimangiarsi le parole. Così accettammo di giocare.

Nei giorni precedenti l’incontro, non venne nessuno del Zirgone ad allenarsi. Di solito si sgambava assieme, metà campo a ciascuna squadra: non c’erano schemi da nascondere o strategie occulte.

Anche andando e tornando dal campo sportivo non incontrammo nessuno: di solito erano là, seduti sul muretto del ponte o davanti al bar. Ora: deserto.

Arrivò il giorno della partita. Aspettammo il treno e assieme agli amici che già avevo informato, ci dirigemmo a piedi verso il campo, seguiti e preceduti da nugoli festanti di ragazzetti che si disputavano l’onore di portarci le borse.

Decidemmo per strada di fare il nostro solito gioco. Del resto Zirgone aveva buoni elementi: una buona difesa ma difettava in attacco; non avevano un centravanti di peso capace di far fruttare l’enorme lavoro delle ali, sia Gilio a sinistra che Sposari sulla destra. I loro cross erano numerosi ma sterili. Tutti i loro goals erano stati segnati o da accentramento delle ali, e potevamo evitarlo, o da tiri da lontano. Ma per questi avevamo Totò, una muraglia e una sicurezza. Così arrivammo al campo rinfrancati.

Mentre ci vestivamo, mi accorsi di strani movimenti e strane presenze nell’angolo di Zirgone: i magnati del Centro Sportivo al completo, anche i capi del Borgo. Capii allora dove si erano allenati durante la settimana: erano stati nel campetto del Borgo, uno spiazzo chiuso dietro la loro sede. Vidi anche, in maglia blu con un enorme numero 9 sulle spalle, Aldo Frascà.

Eravamo stati molto amici alle Scuole Medie, e poi nell’Azione Cattolica dove lui era Delegato ai Minori. Poi se n’era andato in Sardegna e ora era tornato per le ferie. Lo avevo incontrato e ci eravamo salutati qualche giorno prima, ma che c’entrava lui della Strada Nova con Zirgone? C’entrava certo l’Azione Cattolica “IN HAC RE, CONTRA NOS, OMNES CONNIVERE HOSTES” (“Contro di noi, in questa occasione, tutti si sono coalizzati i nostri nemici” Catone). Ora sapevo dove sarebbero finiti i cross delle ali: Aldo era alto e secco, bravissimo nel calcio come nella pallacanestro. Non dissi niente ai compagni. Notai inoltre che Enzo Gemelli, l’allenatore del Roccella, che di solito si godeva le partite al centro del campo, ora si sbracciava, li prendeva uno a uno sottobraccio e li catechizzava. Mi caddero addirittura le braccia quando vidi che arbitrava Pascali d’a Turri. In quelle settimane le talpe avevano lavorato bene, nulla lasciando al caso.

Cominciammo e fummo subito in difficoltà. Di solito giocavamo così, per giocare, ogni  squadra  seguendo  le proprie caratteristiche. Ora invece sia i tre attaccanti che Gigino, fummo affiancati da un marcatore fisso: Cecè Testazza su Nicolino, Peppi Cappelleri su Enrico, Micu u Bovaru su Gigino; a me toccò Ntoni d’u Massaru Gianni. Era diventato proverbiale perché, anni prima, in una partitella estemporanea con la Strada Nova, aveva cozzato violentemente, lui scalzo, con Renato, regolarmente calzato con scarpette, e questi aveva avuto la peggio. Ora le scarpe le aveva, ma legate con del ferro filato.  Ci  stavano  addosso,  col  fiato  sul  collo,  a contatto fisico asfissiante, dovunque andassimo. Noi ci spostavamo in avanti, indietro, al centro, di lato per cercare di scrollarceli ma loro sempre addosso, incuranti della palla  e del gioco, implacabili come il destino. Sapemmo poi che Enzo Gemelli così aveva ordinato:

− Stàtinci ‘ncoju e ne’ mollati; stàtinci ncoju comu u francubullu è ‘mpiccicatu ‘a busta!  − (Stategli addosso e non li mollate, stategli sul collo come il francobollo è incollato alla busta).

E loro eseguivano alla lettera. Rimanemmo così scuciti e disuniti, rientrando alla vana ricerca di palloni giocabili. Aldo ci punì due volte, ma sarebbero potute essere quattro o cinque se non fosse stato per le prodezze di Totò. Finì il primo tempo e ci accasciammo a terra già sconfitti nell’anima e nel corpo: anche i ragazzini, ubriachi di successi, si erano spostati nell’altro campo.

Riprendemmo. Presto rimasi solo all’attacco, anche gli altri erano ripiegati in aiuto alla difesa, portandosi dietro i loro satelliti. Dovevo apparire, con quella cariatide attaccata alle spalle, come una specie di Pietà Rondanini vagolante a centrocampo. Se arrivava qualche rinvio, ero anticipato o sistematicamente buttato giù. Segnarono altre due volte. Io vedevo tutto come attraverso una nebbia, come un Napoleone che osservasse impotente i suoi corazzieri precipitare nella strada incassata d’Ohain e scomparire nella voragine fino a riempirla (Citazione da “I Miserabili” di Victor Hugo).

Non vedevo l’ora che finisse. E finì finalmente 4 a 0 per loro, festanti e acclamanti.

Mentre a terra raccoglievamo intontiti le nostre cose, arrivò Gatanino furioso:

− E lo potevi dire che era la partita decisiva e avevamo bisogno di rinforzi: ci saremmo dati da fare! −  E così aveva salvato la faccia davanti a tutti.

Lo guardai incredulo, io a terra e lui alto e sinistro sopra di me. Non gli risposi neanche. Raccogliemmo le nostre cose e poi, mogi mogi come conigli bastonati tornammo alla sezione.

Non ci furono né gassose, né gelati e né tifosi festanti. Trovai nel taschino dei pantaloni che avevo lasciato lì, la copia della chiave e la consegnai a Nibuli Tipaldo, senza parlare. Poi andammo al treno ad accompagnare gli amici. Pagai io i biglietti sia per l’andata che per il ritorno. Ci salutammo con le lacrime agli occhi.

Gigino ed Enrico non li vidi più, andarono all’Università a Bologna e si piazzarono lì; Peppe e Cecè li incontrai spesso quando insegnai a Gioiosa, il secondo fortemente ingrassato. Totò Criniti visse alcuni anni di gloria: fu ingaggiato dal Locri e si fece onore finchè non si sposò e se ne andò a Milano o forse a Genova. Anche Pippo finì a Milano; Sandro gestisce un ristorante a Reggio e Nando ha messo su a Roma un’impresa di riscaldamenti, Nibuli Tipaldo si mise a studiare filosofia e diventò… filosofo. Con Gatanino: saluti e passa, anche quando fummo colleghi. Io non giocai più al calcio, e  neanche  Nicolino.  Ci dedicammo alla pallacanestro che allora muoveva i primi passi. Diventammo bravissimi: lui un harlem funambolico e imprevedibile, io preciso e devastante col mio gancio infallibile.

Durammo finchè non venne fuori l’altra generazione, quella cresciuta con gli omogeneizzati, alta e inarrivabile. Allora i Neanderthal dovettero cedere il campo ai più attrezzati Cro-Magnon.

Ah, dimenticavo: Pascali d’a Turri! Qualche volta ci incrociamo, ma frequentiamo ambienti diversi, percorriamo strade diverse, usiamo scale diverse: scale diverse, in ogni senso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DALLA PORTA NORD

La seconda domenica di settembre si celebra a Caulonia Città la festa di S. Ilario, il loro patrono. Non eravamo mai andati ma poi Testerrè seppe che davanti al Santo, durante la processione, si esibivano gli Sparatori che procedevano in doppia fila, sparando in aria con archibugi di loro fattura. Decidemmo di andarci.

− Però – dissi io – dovremo entrare dalla Porta Nord! −

Questa clausola prometteva avventura in quanto bisognava andare a piedi per la via Dromo, attraverso il Salìce e l’Amusa. Accettammo in cinque: io, il Bombolaro, Testerrè, il Fraddeco e Pippo. Saremmo partiti di sabato, con armamentario leggero; avremmo pernottato al Bosco dove c’erano in una casa il Triestino, Aurelio, Filicetto Ursino (l’ultimo dei Trizzutini) e Peppe Romano: ognuno avrebbe provveduto per sé, secondo l’antico adagio “ca cu’ mègghju si conza u lettu, mègghju si curca” (Chi meglio si aggiusta il letto, meglio dorme ).

La mattina ci trovammo al Club quelli della Marina, passammo a svegliare il Bombolaro, notoriamente ritardatario e ci apprestammo all’appuntamento dal Fraddeco, al Lume, sulla strada. Qui ci costrinse a sottostare alle sue leggi implacabili e dovemmo, volenti o nolenti, spalmarci i capelli con la famosa Linetti solida.

Eravamo quasi pronti sul piazzale, quando Testerrè pizzicò nella tasca dello zainetto di Tonino un foglietto di carta. Lo tirò fuori e lesse: cani e cavallo, fucile e pistola, stivali, cerbottana, bottiglietta porta insetti…. Era il suo promemoria per i bisogni del viaggio. Ci demmo tutti a canzonarlo: cavallo e fucile, pistola, e dove li trovavi?

− Vuattri ‘on capisciti nenti − rispose Tonino con logica incontestabile − Quandu unu faci l’elencu, nci azzicca tutti i cosi chi ‘nci vèninu a menti, poi chiju chi trova, trova…  − (Voialtri non capite niente. Quando uno fa l’elenco, ci infila tutte le cose che gli vengono in mente, poi quello che trova, trova. )

− E i tutti sti cosi chi scrivisti − gli chiese il Fraddeco − chi trovasti? − (E di tutte le cose che hai scritto, cosa hai trovato?)

− Chista − (Questa) rispose il Bombolaro e tirò fuori la bottiglietta porta insetti. Fu un attimo: il Fraddeco che aveva la fionda appesa al collo, caricò e sparò, lasciando Tonino col beccuccio in mano. Tonino si mollò alla cieca, a testa bassa, come al suo solito. Lo fermammo al volo e finì a ridere: Peppe rientrò in casa e gli portò una nuova bottiglietta, così potemmo partire.

Per il Bosco ci sono due vie, quella già più volte descritta di San Sostene, che porta al Bosco Sud, e quella di Maria che porta al Bosco Nord. Decidemmo di prendere quest’ultima, guidati dal Fraddeco: io avevo sempre percorso l’altra. Arrivati alla Cruci, invece di proseguire verso il Pugadi, svoltammo a sinistra lungo la chiesetta di San Giuseppe. Da qui le salite iniziavano subito ma non c’erano dislivelli terribili come nell’altra.

Fummo ai piani di Baudille, poi al Gurnale, al Forno e a Mangravite. Ora il panorama era superbo. Subito dietro il costone basso di Petrocunì la vista spaziava fino all’Aspromonte: aveva piovuto qualche giorno prima e la pioggia aveva purificato l’aria dalle impurità sospese. Il mare, al levantolo bonaccia, cangiante dal viola al celeste metallico, al blu cobalto, era una visione; in fondo Capo Zeffirio delimitava la conca di Gioiosa e sulla costa e sulle colline biancheggiavano i paesi noti o sconosciuti. Ci fermammo a guardare: ecco Siderno, Locri, Ardore, Bovalino… Lì Gerace, superba sui contrafforti tufacei…

– Quello è Canolo! No, è Agnana… –

Ecco San Luca, Caraffa, Platì… – Là, i piani di Zomaro! – Sotto, la massiccia mole della Torre e del Castello faceva da spartiacque tra Zirgone e u Vajuni: Roccella si apriva a ventaglio, regina sul mare.

Fummo a Maria. Qui  un bivere in pietra per gli animali e un cannolo d’acqua fresca per i viandanti: bevemmo a turno e ci sciacquammo e ci risciacquammo abbondantemente. Al Bosco l’acqua era preziosa e rara e bisognava lesinarla e riciclarla.

Ce la prendemmo comoda, non avevamo fretta e quindi piano piano salimmo ai piani della Mandria. Qui altra vista superba, così all’improvviso la bruna, imponente montagna del Mancino: la vedevamo tutta, dalle pendici alla cima.

− Dio è stato buono con noi Su-Yen! −

Esclamai rapito. La montagna infatti sembrava copia della scena clou di “L’Amore E’ Una Cosa Meravigliosa”.

− E sempi cu ‘ssu cànchiru i Giapponi!  − (E sempre con codesto canchero di Giappone! )

Mi fermò prosaico e dissacrante Pippo Favoino. Aggozzai per non ammazzarlo.

Ormai eravamo in cima: Cioni si può già chiamare propaggine del Bosco.

Ecco Caulonia, la nostra meta di domani, dall’altra parte del fiume; poi Placanica adagiata su un pianoro e Stignano arroccata “in cacumina” (“In cacumina muntis” = sulla cima della montagna: da Virgilio).

Presa  la  stradella del Bosco,  arrivammo  alla  casa dei Ferràtini, lì dove soggiornavano gli amici, proprio al centro dell’altipiano. Il Triestino stava cucinando fuori, all’aperto; Aurelio ci vide e ci corse incontro; Pepè e Filicetto apparvero sulla soglia dall’interno, richiamati dalle voci. Naturalmente non ci aspettavano: non c’erano allora al Bosco né il telefono fisso, né i cellulari. Il Triestino stava cucinando una pignata di fagioli: aveva acceso il fuoco a lato della porta e lo alimentava con della legna raccolta in precedenza.

Mario Lombardo “Tobia”, Vito Taverniti, il Triestino, Francuccio

Mario Lombardo “Tobia”, Vito Taverniti, il Triestino, Francuccio

Francuccio, il Triestino, Vito Taverniti

Francuccio, il Triestino, Vito Taverniti

− Jamu a caccia? – (Andiamo a caccia? ) A me dolevano i piedi e quindi invitai il Triestino a dargli il cambio. Così il Fraddeco e il Triestino “andarono a caccia”.

Intanto Pepè Romano e Filicetto si erano sistemati ed erano usciti. Filicetto il bello, il Tarzan della compagnia si offrì di insegnarci a lanciare il coltello: sistemò a distanza un tronchetto e lanciò. Il coltello colpì di manico e mi volò vicino. Lo presi, lo lanciai e il coltello s’infisse con eleganza nel tronco. Filicetto masticò amaro. Riprese il coltello e tirò ancora: buca anche stavolta. Me lo porse con sfida. Io lo bilanciai e tirai: centro! Avevo imparato alle Muntagneje. Cambiammo attività. Mi avvicinai a Pepè, di qualche anno più grande di me, cervello eclettico e fantasioso.

Con lui avevamo recitato nella filodrammatica dell’ A.C.I., lui Razzullo e io Benino. Lo avevo fatto disperare perché non mi attenevo al copione e cercavo battute a sorpresa. – Iooo sono il comico! – Mi gridava inviperito dietro le quinte. Io promettevo e cambiavo di nuovo: ogni sera una storia. Poi preparavamo “L’ORA JU”, un varietà all’aperto di cui eravamo le stelle, noi due e Nicolino Maraciciglia e Angelino Laganà con la sua fisarmonica, inventando gags irresistibili e punzecchiando con garbo i maggiorenti. Si unì anche Aurelio e passammo qualche ora in piacevole conversazione.

Intanto tornarono i “cacciatori”.

− Presto! Presto! Nascondiamola dentro! −

Entrarono e dal sacchetto tirarono una gallina insanguinata: la testa le pendeva, quasi mozzata dalla fiondata del Fraddeco.

− Attenzione che non si veda neanche una piuma! −

Raccomandò il Triestino ad Aurelio e Filicetto che già aveva iniziato a spennarla. Così, mentre fuori c’era l’alibi dei fagioli, all’interno preparavano la gallina.

Arrivò Fraddeco padre che era al Bosco con la moglie dondolandosi come John Waine in Ombre Rosse.

− Cosa state cucinando? −

− Fagioli! −

Rispondemmo all’unisono con sospetta sollecitudine.

− Mi dìssiru ca vìttiru ad iju −indicava il Triestino – d’i parti d’a vigna i Frascà, ‘nzemi a n’attru… −

(Mi hanno detto che hanno visto lui dalla parte della vigna dei Frascà insieme a una altro…)

− Si, − rispose il Triestino

− Eravamo andati a caccia di lucertole. −

− E ‘mbeci scumpariu ‘na gajina  − (E invece è scomparsa una gallina )

Il Fraddeco si guardava attorno in cerca di indizi ma non ne trovò, dette un’occhiataccia al figlio e senza degnarlo di una parola se ne tornò da dove era venuto.

Tra i due Fraddechi era in corso una Guerra Fredda da diversi anni. Noi continuammo impuniti la doppia attività. Intanto comunicavamo il nostro programma per l’indomani, invitandoli a partecipare, ma nessuno ne fu allettato. Uscirono tutti a passeggio per il Bosco: mi offrii di rimanere a cucinare. Avevo una ‘mpulla (Piaga) al ditone, mi ero tolto la scarpa e volevo che mi guarisse per domani. Rimasto padrone del campo, aspettai che i fagioli fossero cotti e li versai in una pentola più grande.

La gola d'ingresso ai Canyons

La gola d’ingresso ai Canyons

C’erano due teorie di pensiero circa la preparazione della pasta e fagioli, semplici e opposte: la prima prevedeva la cottura separata della pasta e poi la miscelazione con magari qualche minutino di cottura assieme; l’altra, la mia, imponeva la cottura della pasta direttamente dentro i fagioli. Così la pasta si insaporiva e si impregnava di sapore: a lasciarla riposare un pochino era una delizia. Così mi alternavo, fuori ai fagioli, dentro alla gallina che cuoceva in una pignatta di coccio. Appena li vidi tornare in lontananza, buttai i bucatini spezzati piccoli e quando arrivarono era ora di mangiare.

Sistemammo all’aperto, sotto il portico. Quando potei scodellare, la minestra si era riposata  e  tutti  l’attaccarono  a grandi cucchiaiate, sgranando gli occhi e approvando con significativi cenni del capo. Poi a piccoli gruppi scivolammo dentro a mangiare la gallina: se qualcuno, da lontano, stava aspettando di prenderci in castagna osservandoci furtivo col cannocchiale, poteva mettersi l’animo in pace.

Ora avevo esaurito il mio compito e furono gli altri a sparecchiare. Pippo, Felicetto e Aurelio, dietro la casa, scavavano una buca per sotterrare i resti del misfatto e cancellare ogni pur minima traccia. Io mi presi “L’altra Faccia della Spirale” di Asimov e mi sistemai sotto la quercia beato, al fresco, in pace con me stesso e col mondo. Andammo per visite; secondo le conoscenze ci dividemmo in gruppi. Io, Fraddeco e Testerrè andammo da Aldo de Paola, sul versante orientale dell’altipiano. Gli altri scesero giù.

Trovammo Aldo sotto la pergola mentre stava costruendo una radio: sul tavolo una copia di Radio Elettra e poi un fottio di valvole, fili, manopole, pinze di tutte le fogge e misure; su un tavolinetto più piccolo la carcassa in costruzione e una batteria Marelli di macchina. Aldo era l’uomo delle risorse e delle meraviglie. Ci accomodammo sulle sdraio e sulle amache del patio e accettammo il caffè che la madre e la sorella Agnese ci offrirono.

Poi Aldo ci portò a vedere il suo tesoro: sollevò una cerata militare e scoperchiò una Gilera rossa, aggressiva, perfettamente funzionante. Soltanto lui poteva aver avuto l’idea di portarsi al Bosco la moto. Eravamo ansiosi di provarla e così Aldo inforcò occhiali alla Nuvolari un caschetto in stile e mi invitò a salire. Partì a razzo, quasi sbalestrandomi dietro. Al Bosco non c’erano strade ma sentieri e lui guizzava sicuro, evitando pietre e ostacoli: non lo sapeva ancora ma aveva inventato il moto-cross. In lontananza scorgemmo il gruppo degli amici: accelerò e dette gas. Quelli si voltarono stupefatti e noi gli fummo addosso, costringendoli a disperdersi ai lati. Arrivammo fino ai Piruni e poi tornammo. Pippo e il Bombolaro ci tirarono dietro una manciata di more.

 

Caulonia La Porta Nord

Caulonia La Porta Nord

Poi toccò a Testerrè e Fraddeco salire.

A sera mangiammo a freddo. Noi avevamo le nostre colazioni, loro le scatolette, mettemmo tutto cameratescamente assieme. Fraddeco aveva i suoi al Bosco, andò a prendere un po’ di olive e di salame e un boccione di vino: di stare con loro neanche il pensiero. Ci aggiustammo per la notte. Loro avevano portato le brandine da campo. Noi dovevamo arrangiarci. Fu a questo punto che Tonino lanciò a Pippo la frase che resterà famosa:

− E tu cu ‘na frasca pe’ matarazzu e na petra pe’ cuscinu, non stai còmmitu?!… − (

(E tu con una frasca per materasso e una pietra per cuscino non stai comodo?! −)

Al che Pippo, indispettito rispose:

− Vidimu comu stai còmmitu tu  − (Proviamo come stai comodo tu )

E Tonino di rimando:

− Eu a tia tu dissi (Io di te parlavo: 2.a persona singolare ): seconda persona singolare −

Io trovai  dentro il forno dei sacchi, usati per il trasporto dell’uva dalla vigna al palmento e me li sistemai alla meglio: gli altri si provvidero.

Al mattino prendemmo il caffè, salutammo gli amici e partimmo: ci saremmo lavati a Salìce, per risparmiare acqua. Andammo per S. Onofrio e scendemmo a Salìce per la ripida stradella. Alla fonte ci abbeverammo, ci sciacquammo, riempimmo le borracce e andammo al laghetto, tanto prima delle undici era inutile arrivare. Ci spassammo alquanto e poi riprendemmo. Il piede non mi faceva più male: mi avevano dato due bei cerotti e con questi avevo eliminato l’attrito.

Fummo all’Amusa, lo costeggiammo finchè trovammo un guado di pietre messe a giusta distanza sul filo della corrente.

Qui il traffico si intensificava: tutti quelli che provenivano a piedi dalle varie contrade, dovevano passare  di  qua.

Salimmo per la strada sterrata e poi per i tornanti di pietra ed ecco, bello e imponente, l’arco della Porta Nord. Ci fermammo sul piazzale, recinto da un basso muricciolo sbrecciato ad ammirare il panorama. Di fronte, i piani del Bosco: riconoscevamo le bianche casette. Ecco le case dei nonni, quella di Mastro Ciccio u Barveri, là sotto a Bejumundu (14);

− ecco la casetta di Aldo De Paola!… −

Eppoi la vasta area alluvionale del tremendo Amusa e la montagna del Mancino vista, ora, di lato. Entrammo in paese. Subito dopo la Porta un ristorantino: “Da Francuccio”.

− Cca venimu u mangiamu, accussì ndi fannu u scontu! (Verremo a mangiare qui così ci fanno lo sconto! )

Esclamò Testerrè rivolto a me, gli altri ammiccanti. Arrivammo alla Mesa piena di bancarelle, di gente, di festoni, come in tutte le feste. Sentimmo scampanare e poi i botti: era uscito il Santo. Fendemmo la calca e ci attestammo su un montarozzo (Belmondo) in uno spiazzo libero da case. La processione avanzava lentamente: davanti le Donne Cattoliche in doppia fila, in mezzo i Fanciulli Cattolici con fascia azzurra di traverso sul petto, poi tre fratellanze coi mazzieri impettiti e vanagloriosi, infine la banda e poi, proprio davanti al Santo, i famosi sparatori.

Erano una ventina, dieci per parte. Avevano costruito i loro archibugi con tubo da fontana, montato su un triangolo di tavola a forma di calcio, dietro il tubo il cane con la pietra focaia, alla cintura un sacchetto per la polvere , una bacchetta, uno straccio. Caricavano ad avancarica. Fra di essi, inconfondibile, vidi la sagoma da gorilla di Tanu Mussulongu.

Lui e la sua banda di caprai avevano sorpreso un giorno me e Nino Chiefari sotto i Canyons della Muntagneie: noi sotto e loro sopra. Avevano cominciato a bersagliarci di toppe. Noi correvamo per uscire, ma loro si divisero in due bande e ci tagliarono la strada. Ci fischiavano toppe da tutte le parti.

Sì, d’accordo, le toppe sono terra  pressata, non pietre, ma da

quella altezza potevano far male sul serio. Ora eravamo accerchiati: noi sotto e loro metà da un lato e l’altra sul lato opposto del canyon. Eravamo disperati: chiedevamo tregua: − Ci arrendiamo! − Niente. Loro implacabili. Trovammo scampo in una specie di colonna cava, protetta da un masso resistito all’erosione, per cappello. I colpi non potevano raggiungerci direttamente ma le toppe si spaccavano sulla parete e ci sotterravano. Non potevamo muoverci. Decidemmo di fare l’unica cosa possibile: aspettare il buio e cercare di svicolare non visti attraverso la strettoia d’ingresso, ben consci che se ci avessero pizzicati lì saremmo stati senza difesa. Intanto cercavamo bramosi, come animali in trappola, una via alternativa e meno pericolosa.

Proprio in fondo al canyon, vedemmo una frana; sopra un grande masso e su in cima un ulivo era rimasto per metà nel terreno e le restanti radici scendevano libere sul vuoto, lambendo la frana. Ecco, protetti dal buio, potevamo scalare la montagna di ghiaia, raggiungere il masso e di qua arrampicarci su per le radici e uscire dalla trappola.

Tramontò il sole e dopo dieci minuti, in quelle gole profonde, fu buio pesto. Ormai non arrivavano più toppe e non sentivamo nessuno: certamente gli assedianti si erano spostati a presidiare la strettoia. Uscimmo, arrivammo al costone, scalammo a mani e piedi la montagna di sabbia e pietrisco cedevole e fummo sotto il masso. Qui ci demmo a scavare con delle pietre aguzze una specie di scaletta incassata. Così salimmo sulla pietra, afferrammo le radici sporgenti e penzolando pericolosamente su uno strapiombo di almeno 10 metri, fummo in salvo, sul piano.

Da qui ci allontanammo in direzione inversa, verso la Grazia, poi trovammo un punto accessibile alla discesa soltanto in prossimità del Pugade e così arrivammo alla Croce, alla Piazza, alla salvezza.

A notte schiumavo rabbia e voglia di rivincita: sognavo cannoni, mitraglie, lanciafiamme, bazooka per farli correre terrorizzati col fiato tra i denti.

Al mattino ci trovammo con Nino: aveva parlato con suo fratello Gino, della banda di Pujicino. Niente da fare: tra Zirgunari e Cafunari, quartieri contigui, non ci sarebbe stata guerra.

Io proposi di rivolgerci ad Alberto Misuraca, che era quasi dei nostri. Lo trovammo in officina: mentre gli narravamo i fatti guatava torvo e digrignava i denti.

− Si − disse infine − l’avrebbero pagata.

Dopo qualche giorno ci ritrovammo. Alberto aveva parlato con Mimmu u Landaru e Peppi i Cenzu, d’a forgia. Loro ci avrebbero costruito delle grandi forchette di ferro da piazzare nel terreno, lui avrebbe provveduto per gli elastici e per i proiettili. Tranquilli che fra qualche giorno li avremmo fatti correre. Intanto si erano uniti a noi anche Franco Cremona e Mimmo Cuzzola, cugino di Alberto.

Domenica facemmo le prove: ci spostammo alle Lacche e Alberto ci mostrò il funzionamento delle macchine. Erano delle enormi fionde: dovevano essere confitte nel terreno a mezzo di un martello di gomma (per non farci sentire dal nemico); per proiettili c’erano pronti dei pezzi di ferro da otto, piegati a “U”. Trovammo un campo e provammo: tre per ogni pezzo. Lanciammo: avevano una portata di una ventina di metri. Alberto armeggiò con gli elastici, li accorciò e tirammo ancora: il tiro adesso era raddoppiato e il proiettile andava preciso e senza sbandamenti con un fischio lacerante e sinistro. Decidemmo di attaccare sabato, un po’ prima del tramonto.

Ci riunimmo da Alberto, alle Palmare: eravamo in sei: io, Nino, Alberto, Mimmo Cuzzola, Franco Cremona e il Landaro, nipote della Guardia. I primi tre a un pezzo, gli altri all’altro.

Partimmo verso il Pugade. Volevamo andare sul sicuro per non essere scoperti prima: la sorpresa era essenziale per la riuscita della operazione.

Una volta in cima avanzammo pianissimo, albero dietro albero: Mimmo Cuzzola a fare da vedetta e battistrada. Superammo Zirgone, i canyons, il Cavone e disperavamo di trovarli, quando Mimmo ci fece gran segni con le mani: erano là, sulla timpa sopra il cimitero. Stavano giocando alla “Singa” su un terreno che avevano ricavato pestandolo coi piedi: c’era anche il Mussulongu.

Alberto impartì gli ordini piano: noi saremmo arrivati loro di fianco; Franco, Mimmo e il Landaro dovevano tornare indietro, aggirarli, e piazzarsi alle spalle: erano in otto ed era bene lasciare loro una via di fuga. Poi li avremmo bersagliati dall’alto.

Aspettammo che si compisse la manovra, intanto piazzammo la fionda picchiando col martello di gomma sugli stracci che avevamo portato. Anche l’altra squadra era ugualmente attrezzata. La vedemmo riemergere da dietro gli ulivi e prendere posizione: piazzarono la fionda; Alberto col braccio teso aspettò che tutto fosse a posto e dette il segnale: partirono i due proiettili fischiando sinistri: li sentirono arrivare e guardarono perplessi: uno li superò alto sulla testa, l’altro colpì uno di loro a una coscia. Ci mettemmo a urlare e loro scapparono terrorizzati giù per la ripida scarpata. Corremmo anche noi e piazzammo le fionde recuperate sul crinale.

− Fuoco su Tano, testa di mmerda! −

Lanciammo alto, a parabola. Lo colpimmo alle spalle. Lui già curvo per natura, perse l’equilibrio e rotolò giù, superò delle basse aloe e precipitò di peso in una macchia di fichidindia.

Caricammo ancora, sempre gridando insulti da raccapriccio.

Lui si alzò e correndo a morimamma raggiunse gli altri sulla strada asfaltata, ormai fuori tiro. Gli facemmo il nostro sprezzante presentat’arm col braccio. Poi lo vedemmo denudarsi e coricarsi sul muretto del ponticello mentre i suoi accoliti attorno gli toglievano le spine.

Ora era là, davanti al Santo, tutto fiero come se toccasse le pudenda di Giove, col suo musone da somaro. Caricava: Pum! A destra. Scialapopolo! Caricava: Pum a sinistra. Ah! A parmara! Cosa fetusa! (Ah! La palma (quella dei fuochi artificiali). Cosa schifosa! ).

Chiesi al Bombolaro se aveva la cerbottana. Lui tolse dallo zainetto la scatola, l’aprì e me la offerse come si offre un sigaro. Io la presi, scelsi un colpo, saggiai la presa della spina di ficodindia sul fiore.

− Aspettatemi! − Mi feci largo a gomitate tra la folla dei fedeli e faticosamente risalii la processione. Superai la banda, superai il Santo, superai gli sparatori e osservai Tano, aspettandolo sotto l’arco di un sottoscala. La processione s’era fermata per permettere a questi di ricaricare. Io li seguivo a lato aspettando. Ecco che, al comando del mazziere, si fermarono, calcio alla spalla e canna in alto per sparare. Fu in quell’attimo che fiatai con tutta la forza e lo presi sotto l’ascella. Si contorse come una marionetta dal filo rotto: il fucile gli era cascato dalle mani e lui armeggiava per liberarsi dal dardo. Mi abbassai scomparendo tra la folla. Mi trovai il Bombolaro vicino. Mi richiese la cerbottana, gliela diedi ed egli inseguì la processione. Aspettò che si fermasse e gli lanciò un altro confetto prendendolo al collo.

Manco a dirlo, tutti quanti vollero sfruttare l’occasione e vendicare l’antica offesa. Non uno sbagliò il colpo.

Contenti e soddisfatti ci lasciammo superare dalla processione. La lasciammo passare, tanto ormai avevamo visto tutto e tornammo alla Porta Nord “Da Francuccio”.

C’era già gente, per lo più ferari e turisti come noi. Ci sistemammo a un tavolo accanto a una finestra con vista della Porta Nord, di lato all’entrata. Conoscemmo il Francuccio: grasso, capelli unti, barba lunga e grembiule più da macellaio che da ristoratore, unghie da troppitaro (Operaio del frantoio)

Chiedemmo  un po’ di antipasto e delle birre: non ci sembrava tanto raccomandabile da chiedergli il vino. Mentre aspettavamo Tonino, che guardava verso la cucina, ci fece segno; guardammo anche noi e vedemmo la moglie di Francuccio che con la massima naturalezza, cambiava i pannolini al bambino. Ci guardammo attorno con più attenzione: sul marmo della finestra riposavano, chissà da quanto tempo otto mosche rinsecchite; le tende non conoscevano l’affronto di una lavanderia da parecchi lustri.

Cominciammo ad arrotare i denti. Arrivò l’antipasto: un piatto di olive molli, un altro con fette di salame giallo e addimurato (Passato), il pane chiaramente riciclato da tavolate precedenti.

Chiedemmo delle fettuccine per primo e della salsiccia per secondo. Intanto commentavamo: il Bombolaro era del parere di rovesciare la tavola e andar via subito. A me l’idea non dispiaceva. Aspettammo. Arrivarono le fettuccine ma imbastardite dalla presenza di rigatoni, penne, bucatini e cannarozza. Chiedemmo ragione a Francuccio e ci rispose che:

− Tanto, sempre pasta è… −

Mangiammo irritati e malevoli.

− Ma ‘sta bestia sapi cu’ cui si misi? – (Ma questa bestia sa con chi ha a che fare? )

Brontolò il Fraddeco, mentre Pippo e Testerrè prevedendo l’epilogo e già sorridevano sornioni. Arrivarono le salsicce: grandi quanto un pollice, con patate fritte in olio Fiat riciclato.

Decidemmo di fargliela pagare: chiedemmo un’altra birra ciascuno, la sorseggiammo tranquilli, ridendo e scherzando a voce alta. Poi chiedemmo il conto: ce lo portò, sproporzionato e assurdo. Non facemmo eccezioni e Fraddeco si mise in piedi come per raccogliere i soldi: noi li porgevamo. Il Francuccio, tranquillizzato, tornò in cucina. Fu un attimo, volammo fuori, guadagnammo la Porta Nord, la loggetta e via a rottadicollo per la discesa. Ci fermammo al guado. Ci girammo e lo vedemmo in alto, sul muricciolo col suo ridicolo grembiule che ci mostrava i pugni. Gli misurammo il braccio all’unisono e lo lasciammo lì, urlante e maledicente come il Ciclope dietro la barca di Ulisse.

Rientrammo a Salice e ci soffermammo alla fonte, poi ci spostammo al laghetto e meriggiammo felici fino al tramonto, attaccammo quindi la dura erpicata dietro S. Onofrio e raggiungemmo il Bosco che era già buio. Arrivammo alla casa dei Ferràtini, stranamente buia e chiusa. Pensammo che gli amici fossero andati in visita e li aspettammo, anche se fuori erano state rimosse le sedie, il tavolo, le sdraio e le amache. Attendemmo qualche ora e ci convincemmo che gli amici se ne erano tornati a Roccella: qualcosa era certamente accaduta. Sapemmo poi che il Triestino era malamente caduto e si era rotto il braccio: ‘jestimi d’a gajina (vendetta della gallina).

Di entrare in casa non se ne parlava: sbarre alle finestre; portoncino metallico, piano superiore irraggiungibile.

− Tornamundindi a casa  − (Torniamocene a casa)

Concluse Testerrè, come sempre pratico.

− No, veniti cu’ mmia! − (No, venite con me )

Ci arringò il Fraddeco. Lo seguimmo verso Cioni, al buio, in una notte senza luna.

Vedemmo un cancelletto e una recinzione a muro. Peppe ci invitò a scavalcare. Dentro c’era una casetta bassa e semplice: una porta centrale, una finestra da una parte e una dall’altra. Ci spostammo sul retro dove c’era un’altra finestra. Peppe chiese a Testerrè le scarpe da passeggio che portava annodate al collo, vi infilò una mano e con questo tipo di guanto frantumò il vetro. Capimmo le intenzioni e cominciammo a forzare la debole imposta di legno. Cedette e scavalcammo: eravamo nel cucinino.   Facemmo luce con gli accendini trovammo un mozzicone di candela e la accendemmo.

Io pensai subito alla notte: mi lanciai in camera da letto e afferrai un saccone e un cuscino. Fraddeco fece altrettanto; Testerrè trovò sul tavolo una specie di tappetino spelacchiato mentre Pippo e Tonino rovistavano in un armadio alla ricerca di coperte e qualunque morbidume per la notte. Eravamo stanchi, delusi e assonnati.

Ci eravamo da poco sistemati per la notte quando cominciò la sete: le olive e il salame addimurato del Francuccio. Ora capimmo l’errore: nessuno aveva pensato a riempire la borraccia a Salìce, oppure non volevamo caricarci un sovrappeso nella salita, tanto un bicchiere d’acqua lo avremmo trovato dagli amici e la mattina dopo saremmo passati da Maria. Ora ci accorgevamo di quanto fossimo stati superficiali. Chiedemmo al Fraddeco di andare a casa sua a prenderla.

− Mancu mortu! – (Neanche morto! ) Per nulla al mondo avrebbe svegliato suo padre. Poi raddrizzò la testa e mi disse:

− Frà, veni cu mmia! − (Fra’, vieni con me! ) Prendemmo una cortara che c’era in cucina e andammo all’acqua, così, al buio. Non saprei dire dove mi portò. So soltanto che scendemmo lungo una scarpata, reggendoci ai cespugli e procedendo a tastoni. Arrivati giù, molto giù, sentimmo nel silenzio della notte un gorgoglio d’acqua. Trovammo la fonte, lavammo la cortara e la riempimmo, ci servimmo abbondantemente e riprendemmo, questa volta in salita. Ora era molto difficile procedere di concerto: la cortara ha la bocca larga e se non viene tenuta orizzontalmente perde l’acqua. Avevamo trovato il sentiero che portava su, ma era previsto per una sola persona. Ci ammazzammo ma infine fummo in cima, arrivammo alla casa e offrimmo loro da bere.

Fu a questo punto che mi accorsi che il Bombolaro si era preso il mio saccone. Lo richiesi ma lui rispose che  “cui  a Roma jiu, u lettu perdiu” (“Chi a Roma è andato ha perso il letto”. Io mi rifeci al Jus Gentium, chiedendo la solidarietà degli altri: infine ero andato, ammazzandomi, a prendere acqua per loro. Nessuno, stranamente, prese posizione. Ero troppo stanco per affrontare il Bombolaro lì, al buio, allora detti un calcio alla cortara che si ruppe in mille pezzi allagando la stanza, presi il mio zainetto e me ne andai. Fuori mi accorsi di aver agito d’impulso: la notte era buia , la strada pericolosa, ma ormai era fatta e non potevo tornare indietro.

Attraversai tutto il Bosco sentendo i cani che man mano mi abbaiavano contro: raggiunsi la casa del bisnonno, attraversai l’aia e affrontai la discesa selvaggia verso San Sostene. Anche questo era un sentierucolo tagliato tra la macchia mediterranea e tenuto vivo soltanto dal frequente passaggio umano. Intanto mi ero un po’ abituato all’oscurità e in poco tempo, malgrado qualche capitombolo, fui al bivio di Salice.

Ora la strada era più larga e arrivai al malpasso sopra il Purgatorio. Qui la stradella incassata era viscida e falaccosa per le orine degli asini che non trovavano scolo. Poi attaccai la discesa piano, sempre attento e spesso carponi e così arrivai al Pugade, da qui fu agevole fino alla Croce e poi Roccella illuminata e accogliente. Arrivai a casa di mia nonna, trovai la chiave nel buco nascosto, entrai piano e mi misi a letto, addormentandomi subito. Dormii fino a tardi. In mattinata feci una corsa a casa a dire che ero vivo, andai a mare, pranzai e tornai da mia nonna a riposare e leggere. Verso le quattro sentii il noto fischio di Testerrè, giù, nella piazzetta del Dormitorio. Mi affacciai e gli feci cenno di salire. Mi raccontò l’epilogo della gita. Dopo la mia sortita, avevano rimproverato il Bombolaro.

La mattina, girando per Cioni, avevano trovato dei cespugli di corbezzoli e more. Tutti si erano riempiti gli zaini. Mentre procedevano in fila indiana, Tonino gli aveva mollato una bastonata sullo zaino per schiacciargli le more; lui aveva le scarpe da città in mano e gliele aveva mollate in faccia. Ne era nata una colluttazione: gli altri intervennero, ma tutti contro Tonino, ognuno dichiarandogli la propria inimicizia. Così loro erano tornati da Maria e il Bombolaro, solo e rejetto, da San Sostene.

− Cu’ iju finisci sempi a schifìu! − (Con lui finisce sempre a schifo )

Lo seppellì definitivamente Peppe. Col Bombolaro poi mi riappacificai a Roma, dove passammo due anni indimenticabili e, contraddicendo le previsioni di Peppe, non finimmo a schifìu.

*   *   *

Nota senza importanza:

i canyons furono completamente distrutti per la costruzione del depuratore. Ero sposato da poco quando arrivò trafelato Franco Cremona: − Franchicè, stannu distruggendu i muntagneji! −(Franchicè, stanno distruggendo le muntagneje! ) Corremmo. Già le ruspe avevano lavorato da diversi giorni: il sito era irriconoscibile. − Assassini!  Assassini! − Gridammo inascoltati in mezzo alla polvere. Poi tornammo, vinti e delusi, con la morte nel cuore.

SFOLLATI – Capitolo 10

Durante la guerra la nostra casa alla stazione cominciò a diventare pericolosa: i mitragliamenti erano frequenti, mai bombardamenti pesanti però in quanto gli Alleati non vollero distruggere la linea Jonica, ritenendola importante per una eventuale prossima loro avanzata. Tenevano però sotto pressione sia le postazioni di artiglieria del Castello e della Torre, sia il Treno Armato che pattugliava la linea. Un giorno si incendiarono alcuni vagoni carichi di benzina, fermi sul binario morto a non più di venti metri da noi. Fortunatamente il vento (o San Vittorio?) spinse le fiamme  verso il mare, tuttavia la paura fu tanta che decidemmo di sfollare.

Dapprima ci spostammo nella casa avita di mio padre nella Strada Nova: aggiustammo in qualche modo i magazzini della ex falegnameria e ci piazzammo lì: la zia Stella era morta da poco. Abitavano di sopra la zia Mariarosa Cappelleri con i figli Fausta, Mimmo che era militare, Ciccio universitario, Toto, di qualche anno più grande di me, Adelia, Vittorio e Corrado mio coetaneo, Alba più piccola. In un’altra ala stava zio Ernesto con le figlie Rita, Renata e Fernanda, mia pari età; la moglie, zia Amalia.

Allora la strada era fortemente bombata e durante le piogge le due cunette laterali diventavano fiumi. Per superare dall’entrata questi dislivelli c’erano le bolate, cioè delle grandi pietre di Lavagna che poggiavano orizzontalmente sulla strada, lasciando fluire le acque di sotto. Sopra queste bolate ci sedevamo noi ragazzi a fabulare e a giocare.

Un giorno mio padre doveva andare a Condò dove avevamo un terreno olivetato, curato da un mezzadro e ci invitò, noi ragazzi, chi volesse accompagnarlo. Si sono mai visti ragazzi che rifiutino una gita in campagna? Così accettammo io, Corrado e Toto e poi le cugine più grandi Rita e Adelia.

La mattina presto partimmo. Salimmo per il Vallone alto e prendemmo per il braccio sinistro.  Poi affrontammo  la terribile salita di Caramotta e sbucammo su un breve pianoro, poi un’altra, salitella ci portò sulla Serra Gerasa e quindi svoltammo per la viottola a destra che ci avrebbe portati a destino.

Qui la vasta aia con la casa di Mico, l’acqua fresca, la comunella con Lario e Assunta, i figli del colono e poi i fichidindia.

Mio padre e il colono sparivano per vedersi gli affari loro e noi esploravamo la fattoria: le galline, l’asino, il maiale, la capra… Lario sapeva intrecciare i giunchi e ci faceva vedere, poi costruiva aratri in miniatura con una abilità portentosa e ci portava a vedere dove aveva armato le prache, cioè delle pitte di ficandianara tenute oblique da bastoncini collegati a un’esca. Quando un uccellino toccava la praca, questa scattava e lo uccideva. Guardavamo ammirati tanta sapienza e abilità. Intanto tornava mio padre, scambiava ancora qualche parola, prendevamo i panieri coi fichidindia e qualche verdura e via, di ritorno.

E così rifacemmo la viottola, arrivammo sul pianoro della Serra Gerasa e stavamo per prendere la discesa a gradoni verso Caramotta quando vedemmo di lato un sentierucolo diritto e scosceso tracciato forse dalle capre; di lato un valloncello tra le argille raccoglieva l’acqua piovana.

Qualcuno gridò:

− fessa l’urtimu!  − (Fesso l’ultimo!)

E ci lanciammo a rotta di collo giù per la scarpata. Io ero il primo, le gambe mi volavano, facevo fatica, tanta la velocità a tenere il contatto col terreno. A un tratto sento dietro di me un urlo terribile e intravedo con la coda dell’occhio una figura volare scomposta per aria e finire di schianto nel valloncello pietroso, qualche metro più in basso. Vidi o sognai mio padre con le mani nei capelli? Non potevo assolutamente frenarmi, né io né gli altri, finchè raggiungemmo  il piano e così diminuimmo gradatamente la velocità e ci fermammo. Soltanto adesso ci rendemmo conto: Adelia era volata via nella corsa e giaceva riversa, a testa in giù tra le pietre; mio padre disperato, scendeva verso di lei. Risalimmo anche noi, abbandonando i panieri ormai vuoti: Adelia giaceva scomposta, una gamba sotto di lei spuntava con un’angolazione assurda; piangeva e gridava.

Mio padre e Toto cercarono di risollevarla, le misero una giacca a mo’ di cuscino, riuscirono a spostarla e vedemmo la gamba: proprio sotto il ginocchio un osso malamente spezzato sporgeva fuori. Ci mettemmo a piangere anche noi. Mio padre ci impose la calma, poi ordinò a Toto e Rita, i più grandicelli:

− Rimanete qui con lei! Io vado a chiamare aiuto. −

Ci sedemmo lì attorno sgomenti e impotenti e Adelia chiamava la mamma, Fausta, voleva andare a casa; noi a tranquillizzarla. Finalmente tornò mio padre con alcuni uomini: portavano una scala e qualche coperta. Facemmo largo; presero l’infortunata con la massima cautela possibile e la sistemarono sulla scala, una coperta sotto e una sopra: la giacca di mio padre per cuscino. Così in mesta processione tornammo a casa.

Ricordo poi Adelia a letto con la gamba legata al soffitto e due mattoni penduli come contrappesi. Per fortuna che allora non c’erano in zona Reparti Ortopedici specializzati e quindi la gamba tornò perfettamente a posto senza alcuna conseguenza.

Di questo soggiorno da sfollati ricordo diverse peripezie: Valerio una sera si sedette sul braciere acceso e si bruciò tutto il culicello; io saltai scalzo da un muricciolo proprio sopra un culacchio di bottiglia e mi saltò mezzo tallone: mia mamma lo disinfettò con la benzina e poi me lo tenne fermo per ore finchè guarì senza antitetaniche, punti e presenze mediche.

Un pomeriggio ero sceso dalla finestra in una stanza piena di fascine per vedere i gattini e immediatamente fui sommerso da un nereggiare di pulci, che mi copersero fino al petto e mi avrebbero mangiato vivo se Toto non mi  avesse tirato fuori con destrezza buttandomi nella gebbia(Vasca per abbeverare) piena d’acqua.

E poi Valerio si sentì male. Eravamo a scuola alla primina, quando Fausta venne tutta trafelata a dirlo a mio padre. Ci mandò via subito e corse, lasciando a Fausta l’incarico di chiudere. A casa, lì a due passi, mia madre aveva già il piccolo in braccio avvolto in uno scialle. Sopra, sul balcone, zia Amalia, zia Mariarosa, Renata e Rita in ambascia. Seguii mio padre. Dovevo correre per essere alla pari delle sue lunghe falcate. Fummo al Monumento, prese per Zaddeo e scese verso il Misostrato. Al posto dell’attuale studio del dottor Leggio, sorgeva La Cattolica, una grande baracca di legno della Croce Rossa dove c’era un presidio medico permanente. Qui arrivò mio padre col fiato ai denti. Parlò al medico. Seppi in questa occasione che io non fui il primogenito: prima di me c’era stato un altro Franco Francesco, morto a un anno.

Mio padre parlava concitato con l’uomo in camice bianco; c’erano anche due donne. Io ero fermo all’entrata. Valerio fu adagiato su un lettino e il dottore preparò una siringa enorme, piena di un liquido giallastro e gliela iniettò nella pancia e poi ritornammo. Non so cosa ci fosse nella siringa, gli antibiotici non erano ancora arrivati; fatto sta che Valerio, dopo qualche giorno, cominciò a sculettare per casa e a mangiare cannola di carbone dei quali era ghiotto. Poi in ambulatorio medico, ma non gratuito, ci dovetti andare io, e per molto tempo.

Giocavamo con Corrado, quando avvistammo su una finestra a piano terra un coperchio di forno in lamiera. Ci mettemmo a fare il cavalluccio: prima tu e dopo io. Quando toccò a me, mi scomposi, cercai di mantenermi ma caddi, io sotto e la lamiera sopra. Corsi sanguinante su, a casa di Corrado: ero pieno di sangue ma pensavo che questo provenisse da una escoriazione al ginocchio, invece loro si accorsero che avevo il braccio destro quasi tranciato, all’altezza del polso.

Ciccio mi prese in braccio e mi portò dal medico Minici. Mentre mi stava pulendo la ferita, arrivò mio padre. Il medico preparava ago e filo e mi dovette ricucire: ben dieci punti ci vollero. Poi tutti i giorni, per un mese, dovetti tornare ogni pomeriggio per le medicature.

Un giorno, nel rimuovere le bende, il medico apparve preoccupato, si mise a parlottare con mio padre; sentii pronunciare sottovoce di una “probabile cancrena”. Il medico chiamò una sua nerboruta domestica e incaricò questa e mio padre di tenermi stretto. Io non vedevo niente, sentivo armeggiare il medico. D’un tratto provai un dolore, un bruciore tremendo al braccio e urlai quanto forte può urlare un bambino di cinque anni: durò qualche minuto ma a me parve interminabile. In mancanza di antibiotici, per fermare il contagio, avevano dovuto bruciare la ferita con nitrato d’argento. Comunque fu salutare e pian piano il braccio guarì. Mi rimase, a ricordo, una brutta cicatrice.

In estate ci spostammo al Bosco Catalano dove mia nonna e il mio bisnonno, U Pitturi’, avevano le case. Eravamo una folla: noi, due adulti e due ragazzini; i Cruciani con tre, poi i Gonzales con altrettanti; poi mia nonna, zio Gino e i bisnonni. Questi erano il problema: lui era novantenne e mezzo rimbambito; lei aveva 87 anni ed era valetudinaria, immobilizzata su una di quelle poltrone-mobile, con gli stipetti sotto con il càntaro atto a raccogliere gli espulsi fisiologici. I grandi, a consiglio, decisero di assoldare dei portatori.

Così una mattina partimmo: i nonni legati alle spalliere, alti sulle sedie alle quali erano stati applicati dei travi come alle portantine dei Santi, e noi tutti dietro in lunga processione.

Superammo la Croce, il Pugade e ora ci aspettava l’insidiosa salita del Purgatorio. Più che la salita preoccupava la strada incassata in alto, tra roccia e dirupo, stretta e bombata. Salirono i grandi, noi piccoli assistevamo dal basso, insieme a Gino. Vedemmo la carovana salire e poi l’ansia del dirupo: il vicolo, previsto per il passo degli asini, era stretto in basso, a cucchiaio. I portatori non avevano lo spazio necessario per passare di concerto, mantenendo la stabilità e l’orizzontalità dei trasportati. Era un chiamare, un raccomandare, un nostro piagnucolio ad ogni ondeggiamento. Ci misero un’eternità e finalmente furono oltre e li raggiungemmo anche noi sul piano di S. Sostene dove facemmo tappa e colazione.

Poi giungemmo al Bosco dove erano già arrivati gli asini con i bagagli. Mentre si scaricava,  Gino andò dai “Piruni” a chiedere un carico d’acqua.

Al Bosco, allora, non c’era né luce elettrica, né acqua potabile: per la prima si suppliva con candele e lumi a petrolio; l’altra la portavano gli asini, freschissima, dentro i barili. I Piruni limitavano con la vigna di nonna.

Noi nell’ultima misarta avevamo una pirarella che faceva dei frutti molto dolci, gialli da una parte e rossi dall’altra. A neanche dieci metri di distanza, senza alcun ostacolo divisorio, nella vigna dei Piruni c’era un altro pero di qualità diversa. Entrarono – credo – nel nostro DNA di tutta la vasta nipotanza le continue, insistenti raccomandazioni di mia nonna a non toccare le pere dei Piruni. Per anni, quando gli Insegnanti di Religione e di Catechismo mi narravano del Paradiso Terrestre, io associavo l’albero dei Piruni al melo fatale.

Ci sistemammo nelle due casette: la tribù dei Gonzales e mezza Cruciani giù coi bisnonni, gli altri nella casetta delle due querce.

Il Bosco è un altipiano, detto così perché anticamente era appunto un querceto. Gli alberi poi vennero man mano estirpati per far posto alle vigne: ogni vigna una casetta. Era abitato soltanto d’estate e fino alla vendemmia e naturalmente quella ventina di famiglie boscolane formavano una comunità molto stretta. Gli approvvigionamenti venivano assicurati o dai corrieri che andavano e venivano a piedi quasi ogni giorno o da asinai con le gerle. Io non ricordo ristrettezze di guerra, fame o sacrifici: eravamo un esercito eppure non ci mancò niente.

Una sera sentimmo i bombardamenti. I grandi si alzarono concitati, al buio, guai a far luce che portasse su di noi i bombardieri americani. Ci mettemmo a correre per la stradella – jhumara (fiumara) che era allora la via centrale, bassa e incassata. Sentii che andavamo a ripararci nella casa dei Fusco “che era di pietra”, mentre le altre erano di mattoni e fango. Così quasi ogni notte scappavamo dai Fusco. Sentii parlottare gli uomini: stavano decidendo di costruire una trincea, in caso di sbarco alleato o di mitragliamenti. Si misero con le pale alternandosi Gino, mio padre, Cruciani e Gonzales: distrussero una misarta di vigna e produssero un buco informe e sgraziato che rimase lì inutilizzato per anni.

Un giorno Gonzales e mio padre decisero di scendere a Roccella, sia per compere, sia per sentire il comunicato dalla radio del Dopolavoro dei Ferrovieri. Andai con loro. La guerra non andava punto bene, li sentii commentare, malgrado la retorica altisonante dei commentatori: l’Africa era perduta, fermi e sconfitti in Albania, Grecia e Jugoslavia; Malta ancora una spina nel centro del Mediterraneo. Rientrammo.

Dopo il Purgatorio decidemmo di fare un salto alla fonte di Carìa per rinfrescarci. Da qui vedemmo un duello intrapreso tra Roccella e Caulonia dal Treno Armato e due caccia Mustangs. I due aerei attaccavano pigramente a turno e per farlo dovevano attuare delle larghe virate che quasi ci lambivano sopra. Noi, per non esporci sulla strada nuda, decidemmo di arrampicarci sulla collina e da qui guadagnare il pianoro di S. Sostene. Eravamo abbarbicati alla roccia quando uno dei piloti ci vide, ci puntò contro e lasciò partire una sventagliata di mitraglia. Per fortuna che dovette preoccuparsi più della cresta della collina che della mira: i proiettili finirono vicini ma alti.

Dalla paura ci rintanammo in un roveto e non ci muovemmo di lì se non a notte. Sapemmo in seguito che quel giorno fu ucciso un povero ragazzo, Umberto Portari, che era andato a Melissari a raccogliere erbe e un contadino che tornava sul suo carro carico di fieno. Certamente l’eroico pilota di questa bravata si sarà gloriato a sera nel bar degli hangar, a Malta o a Tunisi: ancora due tacche sulla sua colt da Gary Cooper.

In una tenuta vicina abitava Alberto Misuraca, coetaneo, rissoso e ribelle a Roccella ma qui al Bosco conciliante e disponibile. Stavamo spesso assieme io, lui, Toto e Corrado. Un giorno venne a chiamarci eccitato: aveva stanato una serpe lattareja (Serpe che si diceva entrasse in bocca ai neonati per succhiare il latte) in un rovo e voleva che l’aiutassimo a ucciderla. Corremmo. Il rovo era isolato, quindi la bestia non aveva possibilità di fuga. Circondammo il rovo e attendemmo armati di bastoni che uscisse, mentre Alberto rovistava col suo per impaurirla. Niente da fare: o si sentiva sicura nella sua tana oppure aveva paura. Dopo un’ora Alberto si arrabbiò:

− Ah non voi u nesci? E mo’ ti conzo eu!  − (Ah, non vuoi uscire? Allora ti aggiusto io! )

Salì a casa e tornò con una scatola di fiammiferi. Ci incaricò di raccogliere rami e foglie secche. Capimmo le intenzioni e ci prodigammo eccitati. Era estate e non pioveva da almeno quattro mesi. Quando fummo pronti, Alberto accese un foglio di giornale e lo ficcò sotto le esche, sottovento. Le frasche presero fuoco, noi attorno per accogliere la malcapitata se fosse uscita. Alberto caricava frasche e jinestrare (Ginestre). A un certo punto le fiamme si alzarono alte: sopra il falò c’era un ulivo coi rami cascanti, accese come un fiammifero; intanto il fuoco, accendendo le erbe secche, si stava propagando nella sterpaglia. Ne fummo terrorizzati, ci mettemmo a gridare, accorse gente con le pale, picconi, sacchi e cominciarono a gettar sabbia sulle fiamme. Per un po’ la lotta fu incerta ma poi, man mano, arrivò altra gente e l’incendio fu vinto prima che distruggesse tutto il Bosco.

In una delle nostre scorribande, giù, sul piano della casa dei nonni, vedemmo Gino  e  Vittorio,  il cugino di Alberto, che guardavano qualcosa col binocolo.

Ci avvicinammo curiosi e ci lasciarono vedere anche a noi.  Il Bosco declinava lì fino alla distante vallata dell’Amusa. Dall’altra parte si ergevano i contrafforti rocciosi su cui sorge la fascinosa sagoma di Caulonia. Qui si apriva una grotta, palesemente abitata. Vi si era rifugiato, per paura dei bombardamenti, Don Alfredo Capitanio, il fratello delle mie due coinquiline. Noi lo conoscevamo già perché faceva lo spedizioniere e aveva l’ufficio di fronte alla piazzetta. Ebbe una quantità di cani, ai quali voleva un bene pazzo: presto i suoi cani divenivano anche i nostri. Avevano di solito vita breve, a causa delle macchine. Ora era là, imbarbarito, con una canna in mano come un Giovanni Battista nel deserto.

Il tempo si stava guastando: dalla montagna si ammassavano neri nuvoloni minacciosi; il vento era diventato più fresco e si vedeva lampeggiare lontano. Tornammo a casa.

Nel pomeriggio arrivò il temporale, violento come tutti i temporali estivi. La stradella del Bosco divenne fiumara e non potemmo mettere neanche il naso fuori. Al mattino la notizia. Un fulmine aveva colpito una ragazza a Cioni: la poveretta, Tara d’u Cavulognisi (Teresa, figlia del Cauloniate), sorpresa con le caprette dalla tempesta, si era rifugiata sotto una quercia. Qui l’aveva colpita il fulmine: bruciata, fatta carbone, povaricchja (poveretta). Corremmo a Cioni. Vedemmo la quercia. Gente, a crocchio, guardava allibita. La quercia era stata decapitata alla biforcazione; un ramo, grosso quanto il petto di un uomo, giaceva bruciacchiato a terra.

− Ecco − Spiegava uno − il fulmine è venuto dritto dall’alto, ha colpito il ramo e poi il tronco, qui − E indicava l’enorme ferita nera. Un altro, evidentemente tra i primi accorsi, aggiungeva particolari raccapriccianti. Le caprette, terrorizzate, si erano disperse.

. Gruppi di volontari, lontani, le cercavano, spersi su per le balze della montagna. L’eco, indifferente, ne rimandava le voci.

Poi portò la notizia, di mattina presto, il ragazzo del pane: gli Alleati erano sbarcati in Sicilia!

La novità causò enorme scalpore: i grandi la commentavano agitati.

Dopo qualche giorno, era arrivato l’asino con i barili dell’acqua, e tutti aspettavamo lo scarico, accalcati attorno con i bicchieri in mano. L’arrivo dell’acqua nuova era un avvenimento atteso e importante. Il rifornimento durava mediamente una settimana e negli ultimi giorni d’estate, l’acqua diventava torbida e sgradevole. Eravamo lì in attesa, quando sentimmo un vociare, un chiamare giù, sull’aia dei nonni. Ci appostammo tutti sul sentiero e vedemmo in fondo Aldo Paganica e Nino Agostino, giovanotti, che avanzavano sventolando grandi drappi bianchi:

− L’Armistizio! Abbiamo fatto l’Armistizio! −

Tutti saltavano e gridavano esultanti: è finita la guerra!

Lo feci anch’io, d’istinto. Mi girai a guardare mio padre: solo, in mezzo a quel tripudio, a capo chino, composto, piangeva. Grosse lacrime gli scendevano sulle guance, oscillavano sul mento e cadevano a terra, né lui pensava a detergerle. Erano lacrime di rimorso per aver appoggiato, seppur nel suo piccolo, un regime cieco e totalitario? O erano lacrime di dolore per una sciagurata avventura, sognata vittoriosa e che si concludeva così ingloriosamente? Oppure erano intime lacrime liberatorie per la fine d’un tanto massacro? Non glielo chiesi mai. Forse era un po’ delle tre cose insieme.

Ormai non c’era più motivo di rimanere al Bosco: a Roccella urgevano altre priorità, così affrettammo la vendemmia e rientrammo a casa.

*    *    *

E il Bosco Catalano? Successero vicende degne di essere raccontate. Mia nonna dovette venderlo, non potendo altrimenti mantenere il figlio Gino al Politecnico e lo rilevò il fratello Gildo che già aveva riscattato dai fratelli la parte del padre (u Pitturi). Gildo lo girò alla figlia Liliana, come regalo di nozze.

Come ben si ricorderà, la proprietà limitava con quella  dei Pirune. Uno di questi, condannato a venti anni di carcere per omicidio, era stato rilasciato dopo appena sedici per buona condotta. Viveva al Bosco, unico abitante fisso, isolato e malevolo. Covava dentro di sé il rancoroso ricordo del processo.

Egli, per l’arringa, non ritenendo abbastanza capace l’avvocato locale, che lo aveva seguito per tutto l’iter processuale, si affidò a un luminare di Napoli. Questi, senza aver studiato le carte, calò in Calabria credendo di ubriacare la Corte con la sua retorica altisonante e le sue dotte citazioni latine, col risultato che la Corte rigettò le sue tesi e condannò l’imputato al massimo della pena (negando addirittura l’attenuante della provocazione grave e la legittima difesa).

Questo era l’uomo col quale mia cugina Liliana attaccò lite.

Ella aveva alzato sul limite una rete divisoria. Il Pirune sosteneva che gli erano stati rubati venti centimetri di vigna. Mia cugina, incautamente sprezzante, invitava il richiedente a denunciarla, ben sapendosi protetta dal padre, dal fratello e dalla sorella avvocati. Finché un giorno, all’arrivo di lei che con un’amica aveva portato due operai a lavorare nella vigna, il Piruni, determinato e glaciale, afferrò il due canne e a passi misurati le si diresse incontro. Capì lei le intenzioni omicide del suo avversario e tentò di guadagnare la macchina, ma il Pirune le sparò il primo colpo alle spalle, poi le si avvicinò lento e le scaricò il secondo in piena faccia. Ricaricò con calma e disse  agli operai esterrefatti: −  Non  vi  moviti  i  ‘nu  millimetru,  sinnò  ‘ndavi  puru  pe’ vui!  − (Non vi muovete di un millimetro, altrimenti ce n’è pure per voi! ).

L’amica era scappata terrorizzata e si era nascosta sotto un muro a secco. Senza una parola il Pirune le scaricò dall’alto entrambi i colpi della doppietta. Da allora nessuno dei figli o dei nipoti ha messo più piede in quella proprietà maledetta: i tetti crollati, le erbacce e i rovi non più tagliati: un buco nero in mezzo alle linde casette del Bosco.

 

 

 

SCUOLA, TRENINO, CINEMA E FRANCOBOLLI – CAPITOLO 8

Terminate le Medie, a Roccella non c’erano le Superiori e quindi bisognava scegliere o Siderno o Locri. A Siderno c’erano Ragioneria e Geometri; a Locri il Liceo e il Magistrale, nonché l’Avviamento Superiore. Io, Franco Cremona e Peppe Falcone scegliemmo il Liceo dove incontrammo Nello Sirtore, ripetente. Rino, Nino Chiefari, Tonino e Giorgio Ragioneria: più tardi arriverà anche Valerio. Testerrè pure arriverà, autodidatta, al Geometri.

Per andare c’era il Trenino degli Studenti: partiva da Roccella alle 7:20 e ritornava alle 14: tutti abbonati. Sul trenino c’erano due classi: la terza e la seconda. Nella terza andavamo tutti, nella seconda i figli dei ferrovieri capi e i ricchi.

La mattina mio padre si alzava per primo, preparava il caffè e ce lo portava a letto, intanto accendeva la radio per il comunicato. Subito dopo c’erano le pubblicità: – SIETE PIU’ BELLA DI QUANTO PENSATE E PALMOLIVE VE LO DIMOSTRA – CLIC

– ISPETTORE! MA LEI NON SBAGLIA MAI?! – NON E’ ESATTO. ANCH’IO HO COMMESSO UN ERRORE: NON HO MAI USATO LA BRILLANTINA LINETTI – CLIC

– VI DA’ IL BUON GIORNO MANETTI E ROBERTS E IL SUO FAMOSO BOROTALCO – CLIC.

E col famoso borotalco mi dovevo alzare, mai che sgarrasse di un minuto. Comunque tra tutti io ero il più fortunato perché abitavo proprio alla Stazione; il Fraddeco invece abitava al Lume e doveva alzarsi prima.

La mattina il trenino profumava di pane e frittate. A noi ci davano trenta lire al giorno per la colazione: un panino con una fetta di provola o di mortadella, ma molti se la portavano da casa, per lo più frittate o salame. Peppe portava la frittata dentro due fette di pane di casa: il pane era insaporito dall’olio, poi era soda di formaggio e profumata di basilico.

Io spesso me la compravo e lui si arrangiava: era capace di stare tre giorni senza mangiare. A me il formaggio era proibito perché mia madre era allergica. Spesso però digiunavo anch’io a causa dei francobolli.

Avevo iniziato in prima media scambiando Il Corsaro Nero con una busta di francobolli di diversi Stati. Me li aveva forniti un mio compagno di classe: Vici Dineri. Erano bellissimi, specialmente quelli delle colonie: Afrique Occidentale Francaise: rinoceronti, leoni, savane, grandi fiumi, indigeni… Poi Madagascar, Senegal, Dahomei, Kenia, Uganda e Tanganika: giungle, fiumi, cascate, piantagioni di canna e caffè… e poi le isole dai nomi magici, evocativi: Reunion, Mauritius, Tonga, St. Pierre et Miquelon con lagune, scogli, mangrovie, palmizi… Passavo interi pomeriggi sull’atlante a cercarle negli sconfinati Oceani del mondo. Le guardavo sulla carta e vedevo i villaggi, le piroghe sui fiumi, gli indigeni a caccia con archi e cerbottane, le donne impavide coi seni nudi, svettanti…

All’arrivo a Locri dovevamo passare dinanzi alla libreria Pedullà e lì, in bella mostra, irresistibili, c’erano i francobolli. E qui io, Franco Cremona e Nino Grassi col quale simpatizzammo sul trenino, accomunati dalla stessa passione, spesso spendevamo i soldi della colazione in cambio degli agognati quadratini e poi cercavamo di rubarla agli altri.

Il mio compagno di banco, Francesco Tavolato di Marina, era costretto a portarsela in mano anche durante le interrogazioni, tuttavia lo gabbavo almeno due volte la settimana. Portava un costigno di pane con un vuoto dentro e un uovo fritto e indurito: una squisitezza. Una volta  eravamo andati al campo di pallacanestro durante l’ora di Educazione Fisica. I tre affamati filatelici chiedemmo il permesso di andare al bagno, invece rientrammo nella classe incustodita e saccheggiammo dei loro companatici tutte le colazioni. Ricordo Franco Cremona che nella fretta di ingozzarsi, si fece uscire dagli angoli della bocca due rivoli di provola, come due baffi di cinese.

Anche noi, a volte, compravamo la colazione, non dal negoziante vicino, ma facevamo una corsa fino al semaforo dove andavano le ragazze del Magistrale, notoriamente le più carine e disinvolte, graziose nei loro grembiuli attillati o nelle magliette-divisa verdi che mettevano in risalto l’esplosione dei seni. Serviva al banco una signora altitaliana, rossa e gentile.

C’erano le colazioni da trenta lire: un filone tagliato in tre parti con una fetta di provola o di mortadella. Naturalmente, tagliando in tre un filone, si ottengono due costigni e una parte centrale. Tutti logicamente ambivamo al costigno, ma la signora, ormai da diverse generazioni di studenti prima di noi, prendeva la colazione a caso, sotto il banco e la porgeva al destinatario con un sorriso consolatorio, così nessuno poteva recriminare. C’erano poi, a richiesta, anche colazioni da 40, con due fette oppure con tonno. Quando qualcuno la richiedeva tutti ci voltavamo a guardarlo invidiosi. E poi c’erano le inarrivabili colazioni da 50: mezzo filone e tre fette, oppure tonno abbondante ben impregnato d’olio.

Un giorno i tre filatelici ci eravano attardati alla libreria per contenderci dei francobolli triangolari, i primi che vedevamo: c’era scritto “Posta Touva” e poi Kep 50. Erano bellissimi, certo mongoli, a giudicare dalle illustrazioni con lottatori orientali, contadini su bufali, corse di cavalli nella steppa, orsi ammaestrati…

Messici d’accordo sulla spartizione, andavamo soddisfatti, correndo verso la scuola, nella speranza di agganciare gli ultimi ritardatari ed evitare gli scapaccioni del formidabile preside Maresca che, fermo dinanzi alle scale come il Sarracino del Palio di Viterbo, distribuiva manrovesci a destra e a sinistra a chi arrivava in ritardo. All’altezza della Villa incontrammo Nello, libri sotto il braccio, che mestamente ritornava alla stazione. Ci fermammo a chiedergli ragione.

− Mi cacai  − (Me la son fatta addosso)

Rispose calmo e rassegnato, mostrandoci il filo di liquame che da sotto i pantaloni gli colava giù sulle scarpe. Correndo lo vedemmo ciabattare sui cespugli della villa nel tentativo di liberarsi da quella imbarazzante presenza.

Nello era una sagoma: rideva con la “i”, gettandosi tutto all’indietro ed emettendo così i suoi sonori nitriti. Aveva trovato in un libro una frase ad effetto che usava come preludio per qualsiasi tema, anche se di argomento storico, filosofico o di commento letterario:

“Gira la ruota del tempo col suo moto costante e uniforme e vuoti e grigi trascorrono i giorni.”

Una volta aspettavamo l’arrivo della prof di Greco durante il cambio, quando invece arrivò la supplente: una giovanissima ragazza di Roccella. Nello dal banco saltava e si illuminava tutto: era la sua insegnante del doposcuola e certamente da questa insperata occasione si aspettava chissà quali vantaggi.

Orbene, dovevamo fare la versione di greco e Nello, nelle ore di doposcuola, approfittando dell’assenza dell’insegnante, le rovistò nella borsa e nelle tasche del cappotto e trovò il testo della versione. Naturalmente la copiò e se la fece tradurre da qualcuno. Quando il giorno dopo ci accingemmo all’immane tenzone, ci stupimmo non poco quando Nello, glorioso e trionfante, consegnò il compito dopo appena mezz’ora, lui sempre ultimo. Dal giorno dopo cominciò la litania:

− Signorina, avete corretto i compiti di greco? −

− Non ancora, Sirtore −

E così di seguito per un ragionevole numero di giorni finchè al “sì” dell’insegnante Nello, speranzoso, insistette:

− E il mio com’è andato? −

− Benissimo, Sirtore, soltanto che invece di parlare della Volpe e della Cicogna, mi hai parlato della Tartaruga e delle Cornacchie: voto 1.− E seguì la filippica.

L’incauto aveva semplicemente trovato la versione della seconda liceo e noi eravamo in prima.

La squadra di basket del “Mazzini” di Locri

la squadra di basket del "Mazzini" di Locri

Ginnasio Locri Gruppo Inglese – 1954

Ginnasio Locri Gruppo di Inglese

Il trenino era un club riservato dove ragazzi e ragazze potevamo stare insieme al di fuori delle convenzioni che ancora resistevano nel paese. A parte il fatto che dalle ragazze copiavamo i compiti scritti, era un momento di conversazione, di conoscenza diretta e graduale dell’oceano sconosciuto della vita, del pensiero e delle aspirazioni dell’altro sesso. Noi dividevamo le ragazze in due categorie: le crape e le marvizze. Erano crape le ragazze seriose che cercavano il ragazzo compassato, sempre in cravatta, integrato e ambizioso, possibilmente senza grilli per la testa, che è come dire senza fantasia. Queste ci snobbavano ritenendoci e trattandoci come il Di Caprio del Titanic nel salone di prima classe. Le marvizze invece erano ragazze capaci di ridere, di sognare, di amare l’avventura, l’intelligenza, l’imprevedibilità. Con queste sul trenino ridevamo cameratescamente, costruendo man mano un sostrato di cose comuni condivise: si faceva comitiva e si passava quell’ora altrimenti di noia, in allegra spensieratezza. La scuola, le interrogazioni, i voti e i compiti potevano aspettare.

E proprio perché non facevamo i compiti, i nostri genitori ci mandavano al doposcuola. Io e Franco Cremona andavamo ogni pomeriggio da Pino Russo, un avvocato giovane che così integrava le proprie risorse. Veniva anche Vici Dineri e un altro chiamato Puzvice a via dei piedi che non gli olezzavano certo di gelsomino. Orbene, spesso Pino doveva uscire e perché non passassimo il tempo a chiacchierare, ci sistemava in stanze diverse, chiudendole e lasciando la chiave a sua madre. Al ritorno controllava gli scritti e ci interrogava sugli orali.

Dopo alquanto tempo Vici Dineri cominciò a offrirmi in vendita dei francobolli, ben sistemati in bustine trasparenti. Mi diceva che appartenevano a un povero ragazzo handicappato che se ne disfaceva per bisogno e io e Franco li compravamo. Io li tenevo in un vocabolario, schiacciati nel costone, pagina dopo pagina.

Erano questi francobolli a tema: tutti sulla II Guerra Mondiale. C’erano Hitler e Mussolini conditi in tutte le salse; le colonie dell’impero italico: Tripolitania, Eritrea, Somalia, Libia, Isole Jonie; e poi quelli sovrastampati A.M.G.F.T.T. del territorio  Libero  di  Trieste  (non  ho mai saputo cosa significasse veramente questa sigla) e poi della Repubblica Sociale e i V.G. cioè Venezia Giulia e poi molta Austria e molta Germania. Naturalmente io facevo vedere i miei tesori a quanti li volessero ammirare e ne decantavo le lodi e le qualità.

Un giorno Tullio, il fratello di Pino, mi chiese di vedere la mia collezione e io tutto fiero lo portai a casa e gliela mostrai, decantando i pezzi più importanti. Tullio non disse parola ma il giorno dopo Pino mi chiese:

− Cumpari, dice Tullio che avete una bella collezione di francobolli. La portate domani chè la voglio vedere? −

Io tutto fiero promisi.

Il giorno dopo mi presentai col mio bravo vocabolario e illustrai i miei possedimenti. Alla fine Pino, diventato serio d’un tratto mi disse che molti di quelli erano suoi e da chi li avevo avuti. Io indicai subito il Dineri, il quale, quando veniva chiuso in una certa stanza, rovistava nella scrivania e un po’ per volta gli aveva rubato i francobolli. Anche Franco Cremona confermò l’accusa.

− Questi sono miei e me li riprendo. Voi c’entrate soltanto come compravendita incauta e vi potete rifare su di lui. Per intanto… −

Senza finire di parlare alzò le mani e dette una collezione di ceffoni al ladruncolo. Poi lo prese per il collo e lo riportò a sua madre che gli diede il resto. Da allora non ho più ricordi di Vici Dineri.

Comunque noi al doposcuola non rivelavamo tutti i compiti che avevamo, così potevamo andarcene prima. Tanto c’era sempre il trenino e potevamo copiare oppure appiccicare con la sputazza (con lo sputo) qualche lezione di storia o di scienze.

Nel trenino nascevano naturalmente anche amori. Sarà qui che Testerrè incontrerà in quei due anni di frequenza, la ragazza che poi sposerà. Io mi avvicinai a Peppe Falcone il Fraddeco proprio a causa di un amore.

Lei non viaggiava sul trenino ma era ancora in terza media. Mi ero invaghito di lei perché aveva gli occhi orientali. Gli amici me la chiamavano “A Toppa” cioè la Zolla, in quanto con le gambe grosse, bassa e rotondetta sembrava , in verità, proprio una Toppa. Orbene, questa ragazza abitava al Borgo ed io non potevo garantire quei due o tre passaggi giornalieri sotto casa sua che erano di prammatica nei riti di corteggiamento di allora. Avevo bisogno di una spalla. Con Peppe ci conoscevamo, avevamo fatto le Medie insieme, poi sua madre era maestra, però sempre alla lontana. Ora sul trenino lo avvicinai e gli spiegai la situazione. Subito fu disponibile: disponibilità e generosità furono sempre le doti peculiari del suo agire. Così cominciai ad accompagnarlo a casa, a scendere insieme a lui, sempre passando sotto quel balcone e da allora diventammo inseparabili.

Della Toppa si era invaghito anche ‘Ntoni u Longu Zinagra, che abitava vicino. Un giorno mi affrontò, intimandomi di lasciarla stare, altrimenti sarebbe stata guerra:

− Fazzu u scìndinu genti chi non vidisti mai, genti randi, maritati, cu’ vastuni e cu’ sipali…  − (Faccio scendere gente che non hai mai vista, gente grande, già sposata, con bastoni e con siepi… ).

Mi consigliai con gli amici: non saremmo stati mai in grado di affrontare quelli del Borgo, tutti lavoratori, forti e tarchiati. Decidemmo di chiedere aiuto ai Zirgunari di Nicolinu u Pujicinu (Nicolino il Pulcino). Era questi un capobanda forte, basso e feroce, sempre pronto a fare a pugni: emigrato a Ostia farà il pugile per diversi anni. Lo andammo a trovare io e Nino a Gheisha, perché il fratello era della sua banda. Accettò subito: appena si fossero visti, sapevamo il suo Bar. E una sera calarono veramente. Me lo vennero a dire al 900 e io cominciai a raccogliere i miei e altri volontari in tutti i bar della Marina. Loro ci aspettavano “nto Quatru”, cioè nel vasto buco buio vicino la Matrice, dove era in corso l’enorme fabbrica dell’Edificio Scolastico. Trovai fortunatamente Nicolino e così ci avvicinammo.

Erano tanti, nereggiavano nella strada, negli anditi, anche dentro i muri divisori, attraverso le finestre abbozzate. Subito Nicolino chiese chi era il loro campione e Ntoni gli indicò una figura intabarrata con un cappello sugli occhi, al buio. Quando si girò, riconobbi uno dei terribili fratelli Michetto. Si decise: i due sarebbero partiti uno dalle palazzine e uno dal Municipio, nell’incontrarsi, cazzotti. Così partirono. Io intanto mi sentivo un Paride imbelle e mi misi a cercare nello schieramento avversario uno che potesse essere all’altezza delle mie scarse capacità combattive, e lo individuai in Cola Graziano piccolo, tonderello, musicante della Banda. Lo guardai con cipiglio, avanzai verso l’esercito avversario e con voce falsamente eroica lo sfidai a battersi. Quello alla mia richiesta divenne bianco, si confuse, balbettava…

− Sai…Francùcciu… eu fuvi alunnu i pàtrita…simu comu ddu’ frati…..− (Sai, Francuccio, io sono stato alunno di tuo padre, siamo come due fratelli…)

Insomma, se io tremavo, lui se la faceva sotto. Non credendo alla fortuna di potermela cavare così, feci il generoso, lo abbracciai lì davanti a tutti e ci giurammo eterna amicizia, cosa che fu.  Intanto i campioni si scontrarono e si scambiarono un ragionevole numero di cazzotti. Poi loro defluirono al Borgo e noi alla Marina. Con la Toppa finì lì: l’anno dopo lei non venne sul trenino ma andò in Collegio e così non la vidi più. Ma il gusto dell’esotico mi rimase comunque.

Trovai una volta su un giornale la foto di una classe di giapponesine che chiedevano di corrispondere con pari età italiani. Io risposi subito, figuriamoci, anzi restituii la foto del giornale avendo cerchiato in rosso il  viso  della  ragazza  che avevo scelto. Ricordo ancora l’indirizzo: Soiki Ayaki – Jamagata Pen Pal Club-Nishimurujama  − Jamagata Ken − Japan. Per anni aspettai una risposta che non venne mai.

L’abbonamento del trenino ci allargava gli orizzonti, verso Gioiosa e verso Siderno: per alcuni anche a Locri. A Siderno c’erano due cinema: l’Apollo e il Nuovo che si facevano concorrenza a furia di promozioni. Il biglietto per un film costava 50 lire ma spesso per 70 ne facevano due e per 100 addirittura tre, arrivando al massimo di 120 quando qualcuno era di cartello. Questo avveniva di domenica e così noi arrivavamo col trenino nel pomeriggio, facevamo scorpacciata di avventure e tornavamo col diretto di mezzanotte per Bari. A volte portavamo la spiritera e friggevamo uova o salsicce, o nel cinema o alla stazione di Siderno o sul treno. La mattina poi raccontavamo alle marvizze estasiate le nostre avventure domenicali.

Naturalmente i nostri profitti scolastici erano un disastro. In quarta ginnasiale fummo bocciati in blocco: io, Franco Cremona, Nello, Peppe Falcone. Peppe passò a Ragioneria e noi ripetemmo. Anche Giorgio, Nino Chiefari, Pippo, Tonino furono inchiodati per diversi anni nel secondo Ragioneria. Poi Nino Chiefari fu fulminato sulla via di Damasco.

La cosa successe d’estate. Eravamo andati al campeggio. Eravamo in quattro: io, Testerrè, il Fraddeco e appunto Nino. Il secondo giorno, nell’alzarci, vedemmo Nino che si raccoglieva le sue cose:

− A mia u campeggiu non mi piaci. A casa mia a mamma faci tutti i cosi ed eu non fazzu nenti….− (A me il campeggio non piace. A casa mia mamma fa tutti i lavori ed io non faccio nulla…)

Così ci lasciò, raggiunse a piedi Montepaone e se ne tornò a Roccella. Qui lo trovammo cambiato: non più maniche alla gheisha; si mise a studiare di buono e in due anni si diplomò ed entrò in ferrovia. Con noi fu sempre squisito e gentile ma niente più Club e avventure.

Il Triestino – Francuccio – Aurelio – U Sgujato

il triestino

Ripetuta la quarta ginnasiale andai in quinta e la superai per un caso fortuito.

Agli esami di riparazione a settembre non riuscivo assolutamente a venire a capo della versione di greco.   Non conoscendo i verbi irregolari, neanche potevo arrangiarmi col vocabolario. Si avvicinava l’ora della consegna obbligatoria e il Maresca, per poter sorvegliare meglio,  ci spostò in una sola aula, quei sei o sette somari ritardatari. Aspettavo ormai rassegnato l’inevitabile, quando sotto il nuovo banco trovai un foglietto. Lo presi e lì, in bella e ordinata grafia c’era la traduzione. Così passai. E passò anche Nello al quale la porsi sotto gli occhi porcini del Maresca. Così mi ritrovai in prima liceo ancora con Nello e mio cugino Corrado che ci aveva raggiunti dopo la bocciatura in quarta. C’era Nino Grassi, Toto Zito. Franco Cremona non volendo ancora ripetere, si arrangiò da privatista.

La prima liceo fu per me un anno basilare per la formazione culturale: quello che imparai quell’anno non lo dimenticai più e molte cose, allora embrionali, furono seme fecondo che approfondii in seguito. Primo fra tutte la letteratura greca.

Avevamo una professoressa anziana, bassina e zitella dagli occhi vivissimi. Dopo tanti anni era ancora capace di elettrizzarsi e di comunicare e commuovere. Con lei non avevo bisogno di studiare a casa: Ipponatte, Alceo, Saffo, Archiloco, Focilide (‘cai tote fochilideo) erano diventati miei amici come quelli del Club. Poi studiavamo l’Iliade in greco e molti passi dovevamo impararli a memoria: erano e sono bellissimi perché li ricordo ancora. Nella cadenza metrica dei versi originali sentivo il passo degli eserciti, il nitrire dei cavalli, là tra le correnti dello Xanto e del Simoenta. Mi appassionai anche al latino: non più vuota sintassi ma lingua viva dei classici. Ne carpii la bellezza e fui in grado anche di comporre in latino. Ricordo che al Club ormai i pezzi li scrivevo nella lingua di Cicerone.

CRAPAE OCCÙPANT ROCCAM ANPHISIAE − nel quale spiegavo − sempre in latino − come un esercito agguerrito di tali animali aveva costretto alla fuga gli eroici capitani del castello e vi si era installato per DEBELLATIO.

. In un altro descrivevo una furibonda battaglia tra Sarracini e Castellani vinta da quest’ultimi in extremis avendo fatto ricorso alle FOGNAS ANPHISIAE. Ecco la parte principale: SARRACINI MERDACICATI ARRETRANT, MAGNUM VOMBICANTES GUDEJAS; CALIPHPHUS QUI IN PRIMIS PUGNABAT, REGALEM VACILATAM RECEPIT…

Un altro era uno scoop formidabile con titolo a tutta pagina: ABROGATA LEX PRIMAENOCTIS – FORZAMAJORE CONSTRECTUS PRINCEPS. E spiegavo poi perché il Principe dovette abbandonare, così di fretta e furia, una secolare, piacevole prerogativa.

CAUSA PEPPINEIAE SPONSALES. MEGERA VULGARISSIMA ET PER VOCE POPULI INFECTATISSIMA FOEMINA, PRO SIBI PRINCIPI VINDICABAT DIRICTUM LEGIS.

Ecco dunque: si sposava Peppineja, vecchia bagascia, per sapienza popolare infetta e venerea, la quale rivendicava a proprio favore il diritto della legge. Al povero principe non rimase alternativa altra che abrogarla.

Purtroppo di questi capolavori rimangono soltanto i “fragmenta” citati, il resto è perduto. Quindi gli studi andavano bene: letteratura, latino, l’italiano non mi ha mai tradito. Però. Come dice il Collodi: “nella vita dei burattini di legno c’è sempre un però”. Ancora lo scritto di greco e quei maledetti verbi irregolari. A che mi serviva prendere sette agli orali se poi compensavo in negativo con un tre in scritto? Poi c’erano le altre materie: Storia e Filosofia. Di per sè bei, fascinosi argomenti, ma l’Arena li porgeva in maniera piatta e monotona, senza una battuta, senza vivacizzarli in qualche modo: furono subito un problema.

Poi arrivò da Reggio la Spanò, di scienze. Si credeva Giunone Olimpia. Riggitana tipica: mora, labbra carnose con rossetto pesante, fumatrice accanita, tono autoritario e impositivo, pelle grassa e untuosa… Fu subito guerra, specialmente quando affermò che l’ATOMO E’ INDIVISIBILE. Io, lettore di Urania da diversi anni e che la scienza, la Vera Scienza la sapevo mille volte più di lei, la contestai veemente. Lei dapprima usò il tono della sicurezza ironica, poi man mano si vide smontata e denudata pezzo per pezzo e allora alzò la voce, “si stracciò le vesti” ad arte e mi cacciò fuori sospendendomi. Al trimestre un bel TRE campeggiava tra gli altri voti che stavo riguadagnando.

Ora il Maresca aveva inventata una bella trappoletta: a chi erano stati attribuiti voti scarsi, anche in una sola materia, non veniva consegnata la pagella ma doveva venire a prenderla uno dei genitori. Ricordo alla stazione uno sconsolato Nibuli Tipaldo, appoggiato allo stipite, che trasognato borbottava:

− E mo’ chi pàtrima sapi ‘na cosa i chisti, non mi scafazza? − (E ora che mio padre saprà una cosa di queste, non mi schiaccerà? )

E nel dir così compieva il gesto dello scafazzamento, col piede a torcere come su uno scarafaggio o su un mozzicone di sigaretta. Io ero nei guai; non sapevo come dirlo a mio padre: se quello di Tipaldo lo avrebbe soltanto scafazzato, il mio mi avrebbe coperto con tutto il Palazzi di doppioni ingiuriosi, per anni et in saecula saeculorum. Ero preoccupato.

Né potevo trovare il solito vecchietto da portare come nonno, pagandogli i sigari o il vino:  li avevamo esauriti tutti e il Maresca li conosceva. Ma ecco che mentre rimuginavo il problema, ti vedo un carabiniere che avevo conosciuto in casa di Pino Russo. Studiava legge, stava preparando la tesi e veniva da Pino. Qui ci eravamo conosciuti: un tipo allegro, siciliano. Lo avvicinai e gli prospettai la storiella: sai, mio padre è ammalato, non può venire, potresti dire di essere mio fratello…. Lucio mi guardò, mi soppesò, poi mi prese sotto braccio cameratescamente

− Andiamo! −

C’era fila lì davanti alla presidenza. Finalmente toccò a noi. Il Preside prese la mia pagella, la soppesò schifato e iniziò una filippica delle sue. Io, tranquillo, a capo chino, aspettavo che finisse. A un tratto mi arrivò un ceffone in piena faccia che mi fece sbattere sul muro; mi svegliai del tutto: il Maresca era davanti… Pam! Un altro: era il carabiniere, il traditore infame che approfittando della posizione se la stava spassando. Ora la situazione la conosco bene: se in tali circostanze ti puoi difendere, allora ti attisi tutto e contrattacchi al volto e in basso con i ginocchi; se non puoi difenderti, allora salvi la faccia, curvandoti e incrociando le braccia. Così facendo esponi il cozzetto ed è qui, tra cozzo e orecchia che arrivano i colpi.

Ancora per proteggerti il collo, ti pieghi di più, e allora arrivano i calci. Coi calci di solito finisce la foga del picchiante e restano gli improperi, da lontano però (il Terribile era stato buon maestro).

Ma intanto il Maresca si era avvicinato e volle prendere parte, sempre per dovere didattico, al banchetto e attaccò con le sue tozze, note, zampe pesanti. Alla fine, mogio mogio, me ne andai in classe. La pagella era stata consegnata al mio castigatore che a Roccella l’avrebbe data a mio padre, raccontando, puoi scommetterci, la poco onorevole storia. Fui bocciato, respinto a giugno senza tentennamenti e riguardi: “A nulla ti varrà lo scettro né l’infula del Dio…”.

Decisi di cambiare e andare al Magistrale. Qui fu subito altra melodia. Era un tipo di studi più consono, più motivato: studiavi sì la matematica e la geometria, ma quello che imparavi ti serviva alla risoluzione dei problemi; filosofia e pedagogia avevano una loro ricaduta razionale nella didattica. Poi l’italiano fu sempre il mio forte, il latino lo padroneggiavo e in letteratura potevo anche citare le mie conoscenze di letteratura greca. Fui subito una testa di ponte. Così erano chiamati quelli delegati alla impostazione teoretica dei problemi; gli altri ci facevano i calcoli. In filosofia avevamo un insegnante toscano, simpaticissimo. Si era trovato, adottato da altri, un classico impossibile che lui stesso cercò di evitare finchè le pressioni dei librai non lo costrinsero  a  richiedercelo,  ma  da bravo toscano, lo faceva in maniera blanda e ironica:

− Avete comprato il mattone? −

−  Dovete  solo  comprarlo,  non  studiarlo:  comprate  il  mattone! − E i librai erano continuamente lì a premere. Un bel giorno, andando a frotta dal trenino alla scuola, vedemmo un cantiere di muratori e lì, accatastati fuori, una bella pila di mattoni. Ci guardammo furbescamente in faccia e poi con noncuranza, ognuno ne prese uno. Lo tenemmo nascosto sotto il banco e all’arrivo del Palmieri:

− L’avete comprato il mattone? − Siii! −

Urlammo all’unisono, alzando trionfanti il reclamato mattone. Da allora non ce lo richiese più.

Qui, al Magistrale le mie quotazioni erano abbastanza alte; i voti erano soddisfacenti, cominciò a comparire qualche sette. Poi vinsi la gara dei 1500 metri per due volte e mi guadagnai il diritto di difendere i colori del Magistrale “Mazzini” alle provinciali di Reggio. Poi c’era il campo di pallacanestro. Io fui sempre elegante e preciso:

− Quandu jochi pari ca balli u rock e roll − (Quando giochi sembra che balli il rock and roll )

Mi dicevano i compagni.

Orbene, l’ora di educazione fisica della nostra quarta coincideva con quella della terza mista; mista per modo di dire chè i maschi erano soltanto tre e poi tutte ragazze. E che ragazze!

La loro insegnante era di idee moderne e là dove alle gite si andava con pullman differenziati, nommunziamai (Formula scaramantica: che non succeda niente di male), lei ci faceva giocare, maschi e femmine, che è come dire soltanto io e Maraciciglia, quelli che di pallacanestro sapevamo qualcosa.

Le magistraline erano tutte belle e simpatiche, ma questa terza era “cogghjuta c’u coppu’” (Raccolta col retino). Tra tutte una brunetta, occhi orientali, capelli lunghi, vita stretta, occhi luminosi.

Quando giocava ci metteva tutta se stessa nell’ansia della gara. Un giorno sul trenino chiesi senza parere alla sua amica del cuore:

− E Rosetta Todarellu, chi faci? − (E Rosetta Todarello, che fa? )

− Ah, ija è zzita cu ‘nu studenti in medicina − (Ah, lei è fidanzata con uno studente in medicina )

E così mi misi l’animo in pace.

Agli esami fui ammesso con ottimi voti. Feci il tema di pedagogia e andò bene; la versione di latino pure. Ora il problema. Come ho precisato, ero testa di serie, dovevo io impostare  il problema, effettuare la discussione scritta, imbastire le equazioni e le proporzioni, applicando le dovute formule.

Mi piaceva affrontare questi problemi; era come fare l’enigmistica: si partiva da un piano, questo ruotava formando solidi e bisognava risolvere i quesiti, discutendo per iscritto il perché e il percome: un gioco di enigmistica e un articolo giornalistico insieme. Il giorno della prova vidi la Pesci, una crapa, ma bestia anatomica di prima classe, alta e formosa con delle gambe da poter rompere le noci, che si arrabattava per sedersi vicino a me. Me la trovai accanto:

− Francu, tu penza o problema, ca eu ti fazzu i càlculi −

Mi disse, come se tra noi ci fosse stata una consolidata amicizia

− E se non ti ricordi i fòrmuli, i ndaju ccà − (Franco, tu pensa a impostare il problema, ché io ti fornisco i calcoli e se non ricordi le formule, ce l’ho qua )

E nel dir così si tirò su la gonna da sotto il banco mostrandomi tutte le formule scritte in china sul candore delle cosce tornite, sogno di tutti i maschi del Magistrale e oltre. Quel giorno fui colpito da perduranti amnesie e consultai spesso un così succulento volume, poi mi applicai sul problema. Si trattava di un trapezio del quale bisognava ricavare le coordinate impiantando una serie di equazioni. Poi la figura premeva nello spazio, diventando una piramide tronca con 2 coni. Un gioco da ragazzi. Soltanto che la piramide era rettangolare!

Rosetta

rosetta

Il professore Scali, U Giarraru, a tutto aveva pensato, tutto aveva cercato di prevedere ma non certamente una piramide rettangolare. Come tutti sappiamo (e semmai c’erano le cosce della mia ben provvista vicina a confermarlo) nelle superfici laterali dei solidi giocano i perimetri di base (o di basi come nella circostanza) e gli apotemi; nei volumi invece contano le superfici e le altezze. Orbene, in una piramide rettangolare qual era l’apotema? Quello del lato piccolo o quello del lato più lungo? Era rappresentante d’Istituto il Palmieri. Cercammo di chiedergli, ma non era materia sua, né era il tipo di faccendiere capace di telefonare, di informarsi e poi passarci il dato richiesto: era, purtroppo, un galantuomo nato. Dovevamo sbrigarcela da soli. Ci consultammo a distanza; andammo al bagno e sentimmo il parere delle altre classi. Il tempo passava. Emersero due tesi: la prima era quella di usare la formula imparata a scuola, prendendo a caso uno dei due apotemi, tanto, anche sbagliando non potevano bocciarci tutti. A quel punto sarebbe stata questione di voto. Io invece ero del parere di operare una media delle due misure e utilizzare il dato ottenuto. Ricordavo di aver accompagnato qualche volta Zinagra e Sciàbola, muratori, a prendere le misure per i preventivi. Orbene, nelle superfici irregolari, loro non facevano come noi a scuola, dividendo la superficie in figure regolari, calcolando la superficie di ognuna e poi sommandole tutte. No, loro usavano un metodo più semplice: misuravano con la rollina la dimensione più lunga e poi facevano una media delle altezze. Nessuno volle rischiare. Per correttezza informai delle due possibilità la mia procace collaboratrice, ma lei volle seguire il parere della maggioranza. Così rischiai, solo contro il parere di tutti. Ed ebbi ragione.

Qualche giorno dopo mi trovavo con Franco Cremona a Bovalino. Stavamo andando a Reggio, a casa sua dove dimorava il padre, funzionario delle Ferrovie.

Ci eravamo fermati a lavarci i piedi a una fontana perché l’autista che ci aveva dato il passaggio, aveva accennato a un certo odorino…. In questa poco onorevole incombenza mi incontrò il preside Zacconi. Si fermò con la macchina e mi comunicò che ero stato promosso con ottimi voti, che anzi ero stato il primo e che le mie motivazioni del problema, cioè il dato empirico sulle misurazioni dei muratori, aveva mandato in sollucchero la Commissione.

A questo punto non vidi l’ora di tornare a Roccella per comunicarlo a mio padre. Tornai in treno.

Lo incontrai a passeggio, in piazza, davanti al Circolo. Lui che non mi aveva mai perdonato l’abbandono del Liceo, con fare sussiegoso e sfottente, trasse dal taschino una misera monetina da 50 lire e me la diede beffardo. Io con quella mi feci fare un ciondolo e lo portai appeso per anni a disdegno dell’offesa ricevuta.

Poi andai a Roma, tornai a Roccella e cominciai a insegnare, battendo le disagiate campagne di Caulonia. Dovetti all’uopo comprarmi la 500. Poiché i passeri dei benjamina me la riducevano un porcile, la lasciavo nel piazzale della stazione in mezzo a quelle dei ferrovieri. Un giorno, mentre stavo per aprirla, mi sento chiamare:

− Franco! Franco! −

Mi giro e sul treno di passaggio in primo binario ti vedo la Todarello, ormai maestrina, la graziosa compagna di pallacanestro di tanti anni prima che si sbracciava a salutarmi. Già il treno aveva cominciato a muoversi. Ragionai in fretta.

− Adduvi ti trovu? − (Dove ti trovo)

− A Locri, via Duca della Vittoria −

Ci andai.

Erano in festa per i 90 anni del nonno. Mi aggregai alla comitiva, conobbi sua madre, i suoi, i vicini; continuai a tornare, poi portai mia madre…   Oggi abbiamo tre figlie grandi: una è anche sposata, un’altra mi ha reso felicemente nonno e una terza parla di matrimonio…

Francuccio Franco, Peppe “Testerrè” Lombardo, Peppe “Fraddeco” Falcone, Giorgio Meo, Pippo Favoino, Rino Sirtore, Valerio “Malerba” Franco

francuccio franco peppe testarrè

Il matrimonio del pittore Giuseppe Tipaldo

il matrimonio del pittore Tipaldo

 

 

 

CON FERMEZZA E AUDACIA – CAPITOLO 7

Al Club non si ballava soltanto. Spesso preparavamo squisite cenette, per lo più a base di pesce: eravamo nel cuore del quartiere dei marinari e quindi le triglie, le acciughe, il bianchetto o le spichire non ci mancavano.  D’estate, quando andavamo a pesca, portavamo per lo più dei polipi e spesso cefali, molti cefali. Quando Vanni U Gucceri o altri gettavano le bombe sulla passa, molti venivano a galla morti a panzallaria; altri feriti o storditi, si rintanavano sotto gli scogli e morivano là, invisibili. Allora i bombaioli ci venivano a cercare perché li trovassimo con le maschere e ci regalavano qualcosa. Noi però gli facevamo vacca perché i più grossi li nascondevamo giù in profondità sotto gli scogli e consegnavamo loro soltanto lo scarto. Con comodo poi li andavamo a prendere e quindi, llallera! Festa per tutti.

In questo periodo erano assidui del Club Vici Zinagra, Enzo Sciàbola e Pinu u Ciaffu, tutti burghisani, allegri e muratori.

Enzo Sciàbola era diventato mio compare. Il come è degno di essere raccontato. Il comparato in Calabria è un’istituzione molto seria che impegna due famiglie in tutti i suoi componenti per diverse generazioni. Per la mia cresima mio padre aveva scelto un nostro cugino, mio professore delle Medie, nel quale vedeva un modello per il mio avvenire. Bene, ci trovavamo a Locri, non ricordo per quale motivo e gironzolavamo in attesa del treno del ritorno. Eravamo io, Testerrè e Sciàbola quando vedemmo Peppi u Previti, ansante e indaffarato, uscire dalla chiesa con delle carte svolazzanti in mano. Gli fischiai e lo bloccai. Ci avvicinammo.

− Assàtimi stari ca ndaju u mi nda vaju. Mi mandau u Vìscuvu u nci pìgghju u nomi i tutti chiji che ndannu u si ‘ncrisimannu domani − (Lasciatemi stare ché me ne devo andare. Mi ha mandato il Vescovo a prendere i nomi di tutti quelli che devono cresimarsi domani).

E stava per filar via.

− Accùccia! −

Lo bloccai perentorio. Poi ai due:

− Jettàtivi u toccu − (cioè: fate la conta). I due obbedirono senza capire. Vinse u Sciàbola.

− Domani tu mi fai u cumpari − (Tu domani mi farai da compare).

Gli intimai. Poi a Peppe, perentorio:

− Jùnginci u nomi meu! − (Aggiungi il mio nome )

− Ma  eu non pozzu… − (Ma io non posso… )

Cercava di blaterare.

− MÒVITI! − (MUOVITI!)

Gli intimai secco e autoritario. E lo fece.

Così il giorno dopo, ‘mpistunati per bene, tutti e tre andammo per tempo all’Episcopio. C’era tanta gente tronfia e impaludata in attesa a crocchi.

− Cca nui suli sdicimu − (Qua noi soli siamo disdicevoli )

Constatò acido Testerrè.

− ‘Ccuccia Bobj! −

Lo zittii io.

Dopo un quarto d’ora passò un previtòcciolo con delle candele.

− Serve per la Cresima: 100 lire −

Pagammo di mala voglia: con 120 lire ogni domenica a Siderno davano tre films, uno appresso all’altro.

Non erano passati dieci minuti che arrivò un altro e le ritirò tutte:

− Non servono più −.

Non lo prendemmo a calci per non guastare i fatti nostri, ma arrotammo i denti. Finalmente ci fecero entrare in un ricco salone. Arrivò il Vescovo con tutto il codazzo e ci fu la cerimonia. Alla fine un previtùncolo ci invitò a seguirlo in segreteria per iscriverci nel registro della curia.

Quando entrammo pretendeva 275 LIRE. Mi misi a urlare, sostenuto dai due:

− Io non pago per prendere i sacramenti! −

Sollevammo una caciara, c’era gente. Allora il previtùncolo divenne pecora:

− Zitti, zitti che vi scrivo lo stesso! −

Così mi cresimai.

Al club si mangiava anche dell’altro: a volte io e Fraddeco portavamo qualche gallina. Facevamo così. Io lo andavo a chiamare a casa sua al Lume, scendevamo per Picatari, lui con le attrezzature di mare. Qui c’era l’Asilo delle Monache. Davanti, sul prosieguo, dopo il cancello, si apriva un sentierucolo, oggi stradella ma allora stretto e tortuoso  che terminava in un’ampia zona selvaggia ricca di macchie di acanto e euforbie e cespugli di ricino, e vicino grossi massi muschiati.

Qui andavamo a disputare interminabili battaglie a guardie e ladri o “allarmi a cincia”. Dove oggi c’è il muro di cinta in cemento, allora c’era un terrapieno  con sopra una fitta sequenza di fichidindia. Dietro c’era il pollaio, ben provvisto, delle suore: le galline razzolavano libere in una vasta area diserbata. Noi ci sistemavamo a pancia in giù sull’erba del terrapieno come cecchini,  in   attesa  che  qualche  gallina  si  avvicinasse  e  quando  era  a tiro: ZAC! Partiva la fiocina e la centrava. La tiravamo subito, starnazzante, con l’apposita sagola, la mettevamo nel sacchetto e via come due normali bagnanti.

Una volta Ntoni Candido, U Bumbularu e Peppe Fraddeco gabbarono due oche sulla spiaggia di Zirgone, deserta dopo una mareggiata. Sorpresero le tapine lontano da casa, le fugarono oltre le dune e le finirono a bastonate, poi le sotterrarono e a sera le portarono al club. − Il club ha sempre fame! − Era il nostro motto.

Tutto il Club a pasquetta

il club

Così chi capitava  mangiava,  alla  buona,  spontaneamente.I nuovi arrivati cercavano di ricambiare: chi andando da Tobia o da Rocco d’Arcangelo per il vino, chi da Sarroino per il pane, chi tornando a casa a prendere sottaceti, salame, olive.. E così passavamo le serate in spensieratezza e allegria e in complice divertimento.

Tutti partecipavano meno Rocco Panizza. Rocco, anch’egli burghisano, era stato portato al Club da Enzo e Zinagra, ma viveva di rendita.

− Trovau a ‘Merica! − (7)

Commentò un giorno Testerrè. Mai aveva comprato un goccio di vino, mai un mezzo pane, mai una coda d’alicia. Anche quando passava Valerio per i soldi dei dischi, o non li aveva, o dava miserie. Lo chiamavamo “U Zicca” cioè la zecca, intendendo non quella di via Nazionale ma proprio l’insetto ematofago.

Una sera vennero Zinagra ed Enzo a dirci che Rocco aveva ammazzato il maiale. Il cornuto non ci aveva detto niente, dopo un anno e più di cenette a sbafo, ora voleva godersi il suo maiale e gabbarci? No, questo non glielo avremmo permesso.

Ci sedemmo al tavolo e tessemmo l’insidia. Zinagra era di casa, quindi ci dette tutte le informazioni con precisione. Sapemmo così che la casa si alzava su tre piani: sotto la cucina, ampia e funzionale con buffetta, cristallera, forno e bagno; al primo le camere da letto; al terzo la soffitta per metà abitabile con tavolo, sedie e credenza e poi l’altra metà, divisa da un tramezzo, ad aria di ciaramidi. Era qui che tenevano il salame, appeso a canne. Avremmo dovuto farci ricevere di sopra, poi eludere la sorveglianza d’U Zicca e rubare più salsicce possibile, così, per spregio. Preparammo il piano nei particolari: l’indomani, a sera, Zinagra sarebbe andato a casa di Rocco e lo avrebbe tenuto inchiodato fino al nostro arrivo, poi sarebbe stato compito mio farci portare di sopra e liberarli dal guardiano. Loro avrebbero dovuto tenere  addosso  gli impermeabili come per freddo, sotto i quali nascondere la refurtiva.

Così, all’ora prevista, ci presentammo in vico Angilletta e bussammo in casa Panizza. Ci aprì il fratello più piccolo ma Rocco riconobbe le voci e venne ad accoglierci: io, Testerrè, Sciàbola e Valerio: Zinagra era già dentro: lo stato maggiore del Club.

Andai subito al sodo, senza preamboli:

− Dici c’ammazzasti u porcu? E non ndi dici nenti? −

Si fece rosso, cominciò a balbettare. Intanto ci facemmo sotto ed entrammo. Si fece avanti il padre, la madre, la sorella… Avevamo guadagnato la cucina.

− Ma’, pa’, Giusi… U Professuri, fratisa, Peppi Lombardu − (Mamma, papà… Giusy…il professore, le sedie, sedetevi ). Io ero u Professuri per via della scuola popolare che anche Rocco frequentava nella quale, precorrendo di almeno sei lustri gli attuali programmi didattici, Valerio insegnava l’Inglese ai futuri emigranti in Australia.

− Accomodativi! Anna, Giusi, i seggi, sedìtivi… −

Io mi pulicijavo (Come se avessi le pulci), come vergognoso e a disagio, all’occasione sussurrai a Rocco:

− No ccà, mi vergognu, ndavi i toi… Non potimu jiri a ncarchi attra parti u simu tra nui?  − ( Non qui, mi vergogno, ci sono i tuoi… Non possiamo andare da qualche altra parte? )

− Jamu supra! − (Andiamo di sopra!)

Acconsentì lui conciliante.

− O Ma’! Vi’ nchjanamu supra, accussì simu tra nui! − ( Mamma! Vedi che saliamo di sopra, così siamo tra noi! )

Così la prima parte del piano si stava attuando: era indispensabile concretare la seconda. Intanto Rocco e Zinagra preparavano la buffetta: tiravano fuori dalla credenza una tovaglia a quadrettini bianchi e rossi, piatti, posate… La madre e la sorella arrivarono con grosse zuppiere piene di carne fredda d’a cardara, salamorati, olive, sottaceti, pane di casa e altre cosette piccanti. Quando le donne se ne furono andate, ci mettemmo a tavola e allora chiesi a Rocco dov’era il bagno, ben sapendo che lì non c’era. Mi disse di andare al balcone e fare i comodi miei, tanto dava sull’orto. Gli risposi, sempre facendo il vergognoso, che si trattava di un bisogno più… consistente. Non gli restò altra via che portarmi di sotto. Entrai nel bagno, vi rimasi per un tempo credibile, poi tirai lo sciacquone, mi lavai le mani e uscii, sorridendo con complicità. Tornammo di sopra. Un’occhiata furtiva a Zinagra e Sciàbola mi tranquillizzò che la vendetta era stata compiuta.

− Cacciàtivi i ‘mpermiàbili! − (Toglietevi gli impermeabili! )

Suggerì Rocco con la voce dell’inconscio.

− No, no, si mori i friddu ccà supa!  − (No, no, si muore di freddo qua sopra! )

Risposero loro stringendosi di più gli impermeabili addosso.

Mangiammo, bevemmo, scherzammo: Rocco fu un perfetto anfitrione, anche se tardivo, ma oramai era fatta.

Scendemmo, salutammo i genitori, ringraziammo e tornammo al Club. Per Rocco era ormai tardi per uscire. Controllammo il malloppo: tra tutti e due avevano arraffato sedici capi di salsiccia fresca e profumata. La sistemammo in alto, fuori della portata dei topi e altri animali molesti. Ci accordammo che l’indomani sera ci sarebbe stata festa grande al Club: Zinagra avrebbe dovuto assolutamente portare Rocco. Passai la giornata a preparare l’articolo.

In ricordo del giornale murale che avevo all’Azione Cattolica, anche qui nel Club ne tenevo uno – Il Lunedino – nel quale annotavo, esagerando e imitando lo stile di Montanelli, i fatterelli e i pettegolezzi dei frequentanti o dei conoscenti, o anche delle vicende paesane più note e piccanti. Così quando Mimmo Nocera era venuto a dire a Marcello che la sua ragazza lo invitava a una certa tombola natalizia, ed egli vi andò insieme a Sciàbola muratore e a Testerrè, e durante la seduta era riuscito anche a scivolarle la mano tra le gambe,sì il mio giornale commentò, dantescamente, l’avvenimento:

Ma se presso al mattin del ver si sogna

circa lo riveder la propria stella,

appariratti omo alla bisogna

che ti dirà: – Mi manda la tua bella! –

Tu andrai col Mastro e col Sovrano e posce,

quando sarete con le carte in mano

metteraile la mano tra le cosce.

Come si vede era un giornale non senza un certo qual cipiglio letterario. Ora troneggiava il mio nuovo articolo, con i titoli in pennarello quadro:

AUDACE COLPO IN VICO ANGILLETTA (Angilletta in rosso)

Sottotitolo:

CON FERMEZZA E AUDACIA COLPISCONO I CLANDES.

I clandes eravamo noi, quelli del Club Clandestino. Seguiva l’articolo motivatissimo con Come,  Dove, Quando  e Perché,  secondo i canoni  del  più perfetto stile giornalistico. Quando arrivò Zinagra con l’inconsapevole Rocco, il Club profumava di salsiccia al sugo.

Gli facemmo una festa esagerata. Egli pensava che fossimo contenti per la precedente serata. Ci mettemmo a tavola badando bene a sistemarlo con le spalle al giornale. Mangiando gli chiedevamo sornioni se le salsicce erano buone, e poi se queste erano migliori delle sue. E ridevamo sguaiati alle sue risposte ignare di povero pinocchietto sprovveduto.

Alla fine della cena − era tosto però a capire − cominciammo ad alludere all’articolo finchè si decise a leggerlo. C’era tutto, nero su bianco, passo dopo passo. Noi zitti, come il gatto col topo; anche lui sempre più aggrondato e in imbarazzo quando io spiegavo senza peli sulla penna e senza pietà il “Perché” e lo denudavo inclemente.

Rocco  frequentò  saltuariamente  il  Club  e  anche  la scuola. Poi non lo vedemmo più: si era arruolato nella Polizia. Ma ormai anche il Club viveva i suoi ultimi, gloriosi sussulti. Presto le pressanti esigenze della vita ci avrebbero sbalestrato lontano, in balia del nostro destino, nelle parti più disparate del mondo.

 

I CINQUE BOTTONI (Capitolo 6)

Frequentavamo la seconda media: eravamo impressionati dal castello, dalla sua mole imponente, i suoi segreti, i suoi trascorsi. Sognavamo le dame, i cavalli, i cuochi nelle cucine, gli intrighi, i balli, le lotte contro Draguth (Draguth: pirata turco che attaccò più volte la rocca d’Anphisia (antica Roccella), inutilmente. Nell’ultimo assalto Roccella si salvò per aiuto di Vittore di Marsiglia, che poi divenne San Vittorio), gli eroici scontri… Ma soprattutto sognavamo di trovare i sotterranei, le segrete dove certamente prima di abbandonarlo avevano nascosto mobili e armature, chissà quali ricchezze e segreti. Avevamo letto un libro che parlava appunto di un tesoro nascosto sotto il bastione d’oriente (Libro che offrii alla biblioteca dell’Azione Cattolica). Decidemmo di cercarlo. Sopra di esso c’era un orticello con lattughe e scarola, un fico scheletrico e una carrubara. Ci mettemmo a scavare così, da inesperti, più per gioco che per convinzione: ogni tanto controllavamo il libro.

Arrivò una vecchia arpia, furente, proprietaria dell’orto. Lei gridava in cavulognisi (in dialetto di Caulonia, detto cu’ ‘ngusciu, cioè con il lamento perché basato su tonalità simili all’accento) e noi con sussiego leggevamo il libro. A un certo punto Franco Cremona si mise a recitare una favola in latino ma con cipiglio da Pubblico Ministero. La vecchia corse via, ma poco dopo arrivò il figlio, nero e nerboruto con l’accetta sotto l’ascella: ci acchiappò uno per uno inviperito e volle i nomi e l’indirizzo dei genitori. Così cominciò la litania: Eu…… sugnu…… Rinu….. u fìgghju du maestru…. Sirturi……staju ‘o palazzu…..d’u Pitturi.

Eu sugnu….Ninu Chiefari….staju ‘nte palazzini…..d’i ferrovieri.

Eu sugnu…Francu Cremona….u niputi….. d’u notaru Pellizzieri.

Eu sugnu Pippu Favoinu….sugnu fìgghju du…. Maresciallu in pensioni….staju ‘nte palazzini da Dogana.

Toccava a me. – Eu……. − finsi lo stesso imbarazzo − sugnu Gegnu, u fìgghju d’u capustazioni Ursinu…. Staju ‘nta strata Nova, vicinu e Barracchi −.

(Io…sono…Rino, il figlio del Maestro Sirtore, abito nel palazzo del Pittore. −

− Io sono Nino Chiefari, abito nelle Palazzine dei Ferrovieri −

− Io sono Franco Cremona, il nipote del notaio Pellizzieri. −

− Io sono Pippo Favoino, sono figlio del maresciallo in pensione, abito nelle Palazzine della Dogana. −

− Io sono Eugenio, il figlio del capostazione Ursino, abito nella strada Nuova, vicino alle Baracche).

Questa di Eugenio Ursino non era nuova. Anche un’altra volta che la Polizia Stradale ci sequestrò i pattini, diedi il suo nome e anche quando un contadino sorprese me e Nino a rubargli i meloni alle Lacche. Vedendolo arrivare ci eravamo nascosti in un valloncello, ma quello ci sovrastò con due enormi toppe in mano: − O mi diciti i nomi o v’ammazzu! − (− O mi dite i nomi o vi ammazzo! −)

Con Gegnu giocavamo assieme a pallacanestro all’Azione Cattolica e io lo scrutavo cercandogli i segni dell “mie” bastonature.

Una domenica eravamo andati al castello, al palazzo però, non più al bastione e ci dannavamo sul solito problema. Nella corte d’ingresso, quadrata, tre lati davano su altrettanti vani: a sinistra lo scalone d’onore e le cucine; davanti il pozzo e la scala a chiocciola; dietro l’entrata e le scuderie; a destra un muro continuo, senza porte e finestre. Cosa c’era, cosa nascondeva quel muro? Erano là dietro i tanto sognati sotterranei? Avevamo tentato qualche buco da dietro ma avevamo trovato soltanto roccia, la solita, compatta, azzurra arenaria.

Era sempre un problema affascinante. Ci spostammo nelle cucine. Il puzzo era tremendo perché il castello da molti anni ormai, era stato fittato come ovile di capre e pecore e generazioni di ovini  vi avevano lasciato una crosta di cacarocciola alta sui trenta centimetri. Le pecore uscivano la mattina e tornavano la sera. Sul lato Nord Ovest, ad angolo, si erge un grosso muraglione di rinforzo costruito successivamente al palazzo, evidentemente danneggiato da qualche terremoto, probabilmente quello del 1793. Così avevano dovuto puntellarlo da quella parte.

Pippo scavalcò la finestra e si mise a passeggiare sul muraglione, largo alla cima più di un metro, almeno il doppio a piano terra. A un tratto si curvò, spostò qualche cespuglio e ci chiamò eccitato. Uscimmo anche noi e guardammo: attraverso una feritoia, proprio al limite del muro, si intravedeva una stanza chiusa, grande e oscura. Fummo subito elettrizzati: avevamo scoperto la stanza segreta, forse l’ingresso dei tanto vagheggiati sotterranei: a noi fra tutti il Sacro Graal, la Spada nella Roccia, i segreti, i tesori cercati nei secoli!

Decidemmo subito: non dirlo a nessuno e poi cominciare a scavare. Ci servivano attrezzi; ognuno avrebbe provveduto. Intanto stabilimmo il punto di scavo, sul soffitto, là dove la volta appariva più sottile. La segnammo con una grande pietra. Formammo così la società de “I CINQUE BOTTONI”: io, Franco Cremona, Rino, Pippo e Nino Chiefari. Trovato il nome ci serviva un inno.

Il giorno dopo ne proponemmo due: uno di Franco, tradizionale, doveva essere cantato con cipiglio militaresco, battendo a ritmo il tallone a terra, come i Tedeschi.

Diceva:

Il canto di guerra

Dei cinque bottoni

Gagliardo risuoni

Per tutta la terra.

Il terrore noi siamo

Di tutta la gente

E l’armi impugnamo:

abbiam salda la mente.

Doveva essere ripetuto due volte. Ci piacque molto e lo adottammo.

Il mio era totalmente diverso, marinista e sfottente: anticipavo

lo stile demenziale.

Nejunersi nebanè

Fiunejunà

Itorù

Imemà

Tirilitorù

Cun si fussi

Bua!

Anche il mio doveva essere cantato con lo stesso cipiglio, ma veniva cantato a due voci: solista e coro. Al solista le due battute quasi gemelle: “itorù” e “tirilitorù”, gli altri versi, al coro. Il finale era un pezzo forte. Al “Buà” ognuno doveva girarsi come se vomitasse e pronunciarlo schifato al massimo. Anche questo piacque e li adottammo entrambi.

Il giorno dopo iniziammo gli scavi: era fine estate e non avevamo l’impiccio della scuola. Iniziammo con quello che avevamo rimediato: un cuneo, una lattina da usare come catino, una paletta da cucina, alcuni grossi chiodi da forgia.

Dovemmo prima rimuovere la crosta di cacarocciola che col tempo era diventata dura e compatta; sotto trovammo il pavimento, duro di cemento, senza mattonelle. Tentammo con i poveri attrezzi ma non facemmo progressi, allora Franco il più forte di tutti noi, prese la mazzicana del segno, la alzò alta sopra la testa e cominciò a martellare il pavimento. La lasciò cadere a terra una, due, tre, millanta volte finché vedemmo aprirsi una crepa, poi, ancora più forte. Il cemento si frantumò in grandi pezzi, poi in pezzi sempre più piccoli. Iniziammo la raccolta: due li prendevano e li porgevano agli altri che li mettevano nella lattina e poi la vuotavano lontano, vicino alla cripta della chiesa. Ricavammo così un bel buco. Trovammo nelle scuderie un nascondiglio per gli attrezzi e poi concordammo: chi arrivava prima doveva esporre sulla prima finestra la mazzicana, in modo che fosse visibile dalla piazza. Così gli altri avrebbero capito che c’era qualcuno. A sera, naturalmente, doveva essere rimossa.

Il muraglione di rinforzo e la “finestra che faceva buco”

il muraglione

E così ogni giorno, puntuali come braccianti iornatari (A giornata), salivamo a scavare. Ora tiravamo su pietre libere, senza malta. Evidentemente gli antichi muratori avevano innalzata la volta inferiore, poi l’avevano pareggiata con pietre e sopra avevano steso il cemento.

Una domenica eravamo saliti soltanto io e Nino. Cominciò a piovigginare. Disperammo che malgrado il segnale gli altri sarebbero venuti quindi, deposti gli attrezzi, ci eravamo appartati sullo scalone in attesa che smettesse di piovere. Ad un tratto un boato terribile e dalle scuderie una nube di polvere. Corremmo a vedere: era crollato il tetto, seppellendo tutti gli attrezzi. Là dove appena cinque minuti prima eravamo noi, c’era adesso una massa di macerie informe di pietre, travi, calcinacci. Scesi al paese lo dicemmo agli altri e dovemmo provvedere per altri attrezzi.

Il foro diventava sempre più profondo. Ora non arrivavamo più laggiù e allora tenevamo a turno Pippo per i piedi, dato che allora era il più piccolo: lui scavava con le mani o coi chiodi, riempiva un mezzo sacco che sostituiva la lattina perduta e ce lo passava. Una sera facemmo tardi. Scendevamo sporchi di calcinaccio, camminando a gambe larghe, come i muratori veri. Per evitare i curiosi della Cruci, prendevamo una scorciatoia tra le argille. Rino per accorciare di più, saltò da un rialzo e rimase conficcato nel fango fino ai ginocchi:

− Le sabbie mobili! Le sabbie mobili! −

Urlava come un disperato. Facemmo la catena e lo tirammo su. Era combinato San Gerolamo, una scarpa gli era rimasta giù, nel profondo; i pantaloni, le calze sporchi d’argilla: non poteva certo presentarsi a casa così. Andammo alla spiaggia: c’era maretta. Rino aspettava l’onda, faceva un breve lavaggio e poi scappava per non essere sommerso. Cinque volte gli andò bene; alla sesta vinse l’onda che lo coperse tutto, proveniente traditora dal buio profondo.

Eravamo ormai ansiosi e spasmodici: ogni scavata poteva essere quella buona e guardavamo tutti Pippo a gambal-laria con tesa aspettativa. Finché un giorno, non lo dimenticherò mai, dopo quattordici di lavoro, ecco la polvere fluire verso il basso: Avevamo bucato!

Ci sistemammo in cerchio dinanzi alla buca e cantammo i nostri due inni. Poi ci demmo ad allargare il buco come forsennati, utilizzando dei legni cervunari dei pastori. Ora ci servivano delle corde per calarci, ma intanto prendemmo dei cespugli secchi, li accendemmo e li buttammo giù per cercare di scoprire qualcosa: niente da fare, vedevamo soltanto un po’ di parete e niente altro. A sera setacciammo il paese: dove vedevamo panni appesi, buttavamo a terra screanzatamente il bucato e tagliavamo la corda.

Ne avevamo una diecina. Era iniziata la scuola e la mattinata non passava mai: QUANDO LA PENULTIMA E’ BREVE, L’ACCENTO CADE SULLA TERZ’ULTIMA; QUANDO LA PENULTIMA E’ LUNGA, L’ACCENTO CADE SU DI ESSA. Ma chi se ne frega dove cade o dove non cade l’accento! Avevamo altro in testa! A pranzo mangiammo a fujuni (A fuga, di fretta) e via verso i tesori occulti che ci attendevano.

Facemmo la conta per darci l’ordine di discesa. Legammo un capo alla pietra della finestra che faceva buco, praticammo dei nodi quindi, ansiosi e scriteriati, seguimmo l’ordine di cordata: primo Franco, poi Nino, poi io e dopo Pippo e Rino. Toccammo terra sul pavimento della stanza. Ci disilludemmo subito: era vuota e non aveva porte. A terra giacevano due scheletri di capre, sul muro interno un buco informe con attorno ancora i detriti di scavo. Nessun attrezzo, nessun altro indizio. Le capre? Bè, quando decisero di chiudere il pianoterra per costruire il muro, evidentemente erano ammalate e le avevano murate dentro per evitare il contagio. Ma il buco, chi lo aveva fatto? Un prigioniero? E da dove era uscito se il buco non era stato completato? Interrogativi che ancora oggi attendono risposta.

Franco Cremona e Testerrè

franco cremona

Nino Gheisha Chiefari – Fraddeco – Valerio

nino

Decidemmo di risalire e Franco si accinse a farlo. Ahimè, la corda, toccando il fondo informe del foro, faceva cadere le pietre messe lì, senza malta. Tentammo tutti ma le pietre ci cadevano a grappoli: non c’era verso. Ci mettemmo a chiamare aiuto all’unisono, ma sapevamo che le nostre voci non sarebbero mai arrivate al paese, né potevamo aspettarci l’aiuto dei pecorari, ancora lontani, sui pascoli alti delle Serre. Dovevamo attirare l’attenzione visiva, attirare gente col fumo, all’uso degli Indiani. Ci guardammo attorno: c’erano sì i resti delle frasche buttate da noi, ma erano ben povera cosa.

Le camicie. Dovevamo bruciare le camicie. Ce le togliemmo, le strappammo a pezzi e cominciammo a bruciarle, utilizzando un pezzo ciascuno dinanzi alla bocca per non soffocare. Un fumo denso e nero si innalzò verso il buco che faceva da cappa, poi lo vedevamo scomparire attraverso il vano della finestra. Non potevano non vederlo dal paese. Infatti dopo un po’, sentimmo movimento, peditozzoli, voci. Ci mettemmo a gridare. Arrivarono quelli della Cruci: i fratelli Zottolo, Enzo Mari, Angelo Cardara, Pietro Nanni, Tonino Simone e altri. Raccontammo la nostra vicenda. Si organizzarono: erano tutti muratori e sapevano cosa fare. Cardara che era il più vicino andò a casa, portò delle travi, un paranco, un catino di metallo. Ritirarono la corda e vi applicarono un copertone; sistemarono tre pali con la punta verso l’ alto e legarono il paranco con fil di ferro, poi ci calarono il catino, spiegandoci di infilarlo in testa a mo’ di elmo, per le pietre. A turno ci infilammo il copertone sotto le ascelle e fummo tirati su, riguadagnando la luce. Raccontammo ora la nostra storia con più particolari e li rendemmo compartecipi. Si stupirono che noi eravamo riusciti a eludere la loro attenzione per quasi un mese. Del resto, se avessimo parlato, quello per loro sarebbe stato un lavoro di due giorni… Comunque vollero scendere anche loro a constatare.

Quel giorno potevamo morire, lì, soli e inascoltati: cinque scheletri per gli archeologi del futuro.

LIBERA ME DOMINE – 2° CAMPEGGIO- CAPITOLO 5

Tornati a Roccella, ricchi di esperienza e di entusiasmo, sistemato tutto nel Club, andammo a trovare i compagni. Certamente avevano dovuto cambiare la zona balneare per via della fiera. Trovammo Peppi U Fraddecu al ponte Rossetti, sotto un ombrellone affollato di ragazze, come un pascià. A portata di mano, sempre l’attrezzatura subacquea e in testa l’immancabile cuffia azzurra. Peppe aveva i capelli ondulati e ne aveva una cura maniacale e li ungeva con manate continue di brillantina Linetti solida. Era fiero del suo torace da dio greco a “V” e tale si sentiva finché non arrivò a Milano dove dovette ricredersi amaramente. A Roccella eravamo tutti greculi; quasi tutti intorno all’uno e sessanta, uno e sessantacinque di altezza. Se qualcuno arrivava a uno e ottanta era chiamato “U Longu”. Per noi eravamo normali, belli e irresistibili. A Milano, a Torino invece, chi andò pensando di fare sfracelli di ragazze, dovette subire una cocente delusione nel vedersi trattato da tappo. Comunque Peppe viveva i suoi successi e collezionava “Sì”. Era capace, una volta puntata la ragazza, di asfissiarla con una corte continua e stretta, di fermarla venti, trenta volte finché quella crollava per sfinimento e gli mollava l’agognato “Si”. A questo punto Peppe, appagato, si fermava e passava a un’altra. Una volta, per aiutarlo, architettammo un piano diabolico. Durante una festa ci passammo la voce e una ragazza non la invitammo a ballare. La meschina, umiliata, aveva i lucciconi agli occhi. Quando Peppe, entrato tardi, verso le undici la prese per il lento, quella cadde come una pera matura.

Ora era lì, sotto l’ombrellone, che mostrava alle ragazze un polipo appena gabbato. Sentito il progetto del campeggio “Luna d’agosto”, Peppe approvò subito. Gli chiedemmo di Pippo. Ci indicò più avanti. Quelli della Dogana  avevano  trovata  una  pietra  da

marciapiede, l’avevano sistemata a mo’ di trampolino e saltavano in fila. Pippo, già abbronzato, dirigeva il traffico e saltava a capriola. Gli parlammo del campeggio ma non si mostrò entusiasta: prese tempo ma svogliatamente. A sera capimmo il perché: aveva gabbato una turista genovese e se la stava spassando. Cercammo Nino Chiefari. Non poteva venire: aveva un matrimonio a Soverato, di una sua cugina. Di queste cugine ne aveva a diecine e noi non ne avevamo mai vista una. Finirà comunque per sposare una di esse. Decidemmo di partire in tre.

La sera ci ‘’ ’mpistunammo”, cioè ci parammo in vestito e cravatta per goderci il passeggio della festa, nel corso illuminato da festoni di luce. Testerrè, che nel pomeriggio era andato come suo solito, a giocare a carte nel bar Centrale, ci portò la notizia: aveva trovato il quarto, sempre che fossimo d’accordo. Si trattava di Peppi u Previti, un seminarista di qualche anno più piccolo di noi, formidabile giocatore di tressette. Fummo perplessi: primo perché non era un subacqueo e poi temevamo di doverci controllare nel linguaggio e nel comportamento.

Testerrè lo conosceva meglio di noi e garantì che, a parte la veste, era un tipo normale, inoltre diceva di essere il pupillo del Vescovo e sperava di poterci far avere qualche scatoletta dalla P.O.A. Questa, Pontificia Opera Assistenza, era l’Ente che riforniva le mense di tutti gli Asili, i Campi Estivi e le Colonie della Locride. Speranzosi ma poco convinti, accettammo.

Così Peppi Macrì, u Previti entrò a far parte del nostro mondo. Se avevo avuto qualche dubbio su di lui dovetti ricredermi subito: sarcastico e pungente, pratico e sostanzioso, smaliziato come noi, cominciò a frequentare il Club e ballava pure così, vestito da prete. Per il nostro “Clandestino” fu un tocco di classe.

Andammo a Locri, poco convinti io, Testerrè, Fraddeco e Peppi U Previti. Portammo comunque gli zaini e qualche altra borsa.

Lo accompagnammo all’Episcopio. Lui entrò e noi lo attendemmo fuori. Dopo una mezzoretta tornò, compito fino al cancello, poi saltando e ridendo una volta al riparo del muro di cinta. Ci fece sventolare davanti, trionfante, un foglio di carta: era intestato dalla Curia, con tanto di firma del Vescovo. Leggemmo increduli: c’era scritto soltanto:

− Date a questo bravo giovane ogni ben di Dio − Ci abbracciammo gongolanti lì, in mezzo alla strada. Poi andammo alla P.O.A.

C’erano donnette, zingare in attesa, chissà da quanto. Peppe assunse un’aria sicura e porse il foglio alla suora, con albagia. Ci fece entrare nei magazzini: c’era veramente ogni ben di Dio! Lavorammo svelti e con calma. Lasciammo perdere tutto quello che era ingombrante come pasta, biscotti, riso, latte e ci dedicammo alla sostanza: cilindri da un chilo di carne in scatola, lattine di tonno da due chili, pacchi di formaggini, forme di caciocavallo in lingotti da due chili…

− Questo ci basta −Bestemmiò qualcuno.

− Il Club ha sempre fame! −

Rimbeccai, sempre teatrale.

Come rapinatori professionisti, andavamo a colpo sicuro tra gli scaffali, parlando piano e calcando bene la roba negli zaini. Prendemmo tutto quello che potemmo portar via da quella grotta di Aladino, convinti che una tal fortuna capita una sola volta nella vita. Tornammo carichi, felici e trionfanti alla stazione, portando i sacchi per le cinghie, a due a due: io e Testerrè, u Previti e Fraddeco. A sera, nel Club, facemmo un assaggio di tutto. La carne era squisita: il Vaticano la importava direttamente dall’Argentina.

− Sapore delle Pampas! −

Commentai a bocca piena e gli altri approvavano con la testa, mentre Valerio, non più Malerba ma Giugurta, ci dava il tempo con “Marina, Marina”.

Due giorni prima della partenza Pippo venne a trovarci e si disse disponibile a venire con noi: la turista era partita ed egli era libero. Pippo era sempre stato uno di noi; era un bravo sub e un bravo compagno. Lo accettammo con l’intesa però che avrebbe dovuto arrangiarsi fuori della tenda.

Peppi U Previti all’epoca dei fatti

peppi u previti

E così arrivò il gran giorno. Accompagnammo Peppe Testerrè alla stazione con tutti i bagagli e la mia bicicletta “che d’ogni posa mi pareva indegna” perché era al servizio di tutti. Peppe era figlio di ferroviere e viaggiava gratis. Partì portandosi tutto dietro come bagaglio-presso. Ci saremmo trovati alla stazione di Squillace: noi altri, per risparmiare, saremmo arrivati in autostop. Erano le 9 di mattina e ci dirigemmo verso il Cavone, fuori del paese, per iniziare la nostra avventura: termine ultimo le cinque del pomeriggio o coi mezzi o con l’ultimo treno. Allora non è che passavano tante macchine come oggi: ne passava una ogni morte di papa. Per converso gli automobilisti non erano cinici e diffidenti come oggi. Se avevano il posto ti facevano salire. Ammenochè non ci fossero donne a bordo: in tal caso tiravano dritti e noi neanche alzavamo la mano. Apparivamo come dei progressisti, dei simpatici trasgressori e dei buoni compagni di viaggio.

Partirono prima U Previti (che naturalmente si era messo in borghese) e Fraddeco su un camion; poi su una Vespa mandai Pippo. Così ci snocciolammo sull’assolata Strada Statale 106 delle Calabrie. Un camion mi portò al bivio di Focà dove mi fermai una mezz’oretta al fresco dei platani che una volta ombreggiavano quel tratto da entrambi i lati. Un furgoncino mi portò fino a Guardavalle; nei pressi del faro di Monasterace vidi Pippo Favoino in attesa. Non avevamo posto, quindi salutai e proseguii. A Guardavalle attesi più di un’ora. Mi sorpassò Pippo e poi un commesso viaggiatore (che mi offrì anche il caffè) mi portò fino a Isca.

Mentre passeggiavo su e giù in attesa, passò il Fraddeco cu una Simca scassata e mi presero a bordo, c’era dietro anche U Previti. A S. Andrea ci dividemmo ancora. Trovai una Guzzi che mi portò a Soverato e persi di vista gli altri.

Arrivai a Squillace verso le due del pomeriggio; Pippo arrivò un’ora dopo e verso le quattro arrivarono assieme i due Peppe. Così riuniti, mangiammo alla tavola della sala d’aspetto, utilizzammo la fetida toilette della stazione e fummo pronti, in perfetto orario. Legammo i bagagli alla bicicletta, i fucili e l’ombrellone al telaio e gli zaini di lato, cercando di bilanciarli al meglio, poi cominciammo a spingere: due al manubrio, due al sellino e uno dietro. Attaccammo le curve, gli stretti tornanti che seguivano ogni anfratto di quelle montagne che, precipitando direttamente a mare, formavano quella meraviglia che è Copanello. Ma non era questa la nostra meta: troppo turistica e affollata. Noi saremmo arrivati a Caminìa, la lunga spiaggia tra le due gallerie, meno conosciuta e meno frequentata.

Il sole d’agosto batteva implacabile e presto fummo madidi di sudore, spingendo l’oscillante bicicletta su quelle curve e controcurve da Gran Premio. Finalmente fummo in cima e vedemmo in basso, molto in basso, la nostra spiaggia. Il dirupo sul quale eravamo faceva scarpata fino ai binari della ferrovia, una trentina di metri più in basso e poi precipitava verso la spiaggia. Trovammo un passaggio: due scesero e gli altri smontammo i bagagli e li calammo, piano con le sagole dei fucili, ultima la bicicletta. Dovevano essere le sei ed eravamo ansanti, sudati e impolverati: quel mare superbo e così vicino era estasi e tormento insieme. Dovevamo preparare il campo per la notte, prima che arrivasse il buio.

La spiaggia era larga e pulita, delimitata da due promontori coronati da scogli affioranti e da altri sommersi. Per tutta la lunghezza della spiaggia, a ridosso della roccia, correvano le arcate del ponte in muratura della ferrovia. Il treno sbucava sbuffando da una galleria e si infilava nell’altra. Il promontorio lato Soverato era abitato: c’erano una diecina di villette di ricchi catanzaresi che venivano soltanto d’estate. Una stradella polverosa partiva dalla spiaggia e arrivava su, alla statale.   Qui c’era lo spaccio. Sotto,  al limite tra strada e spiaggia una fontanella forniva l’acqua potabile ai pochi turisti domenicali.

L’altro promontorio era disabitato e sarebbe stata la nostra zona di pesca. Sulla battigia c’erano sei o sette ombrelloni con bagnanti che ci osservavano curiosi.

Ci demmo una mossa. Smontammo gli zaini, scegliemmo il posto e decidemmo di sistemarci sotto la terza arcata. Preparammo il suolo con cura, mentre U Previti andava all’acqua con la tanica.

Poi ci dividemmo i compiti: io e Testerrè a montare la tenda, U Fraddecu a sistemare la cucina e le derrate, Pippo a gonfiare i materassini. Lavorammo svelti, sicuri, con competenza. In meno di un’ora fu tutto a posto, sia la spiritera che un focolare a legna. Finalmente andammo a fare il bagno. Chiedemmo ai ragazzi degli ombrelloni che si erano avvicinati, notizie circa lo spaccio, la presenza di altri eventuali subacquei, la possibilità di barattare il pesce. Sotto gli ombrelloni c’erano anche diverse ragazze ma, per adesso, lasciammo perdere non volendo crearci inimicizie o suscitare gelosie.

Cenammo di buon appetito con pane, carne in scatola, cacio cavallo e formaggini. Preparammo anche una monumentale insalata di pomidoro in casseruola e ci accovacciammo attorno come i SIOUX al consiglio di guerra. Finimmo che era ancora giorno e mentre Pippo e U Previti andavano a lavare i piatti alla fontana, noi preparammo la latrina nella quarta arcata. Utilizzammo dei rami che le mareggiate avevano stracquato un po’ dappertutto e alzammo una palizzata, assicurandola con pietre e corde. Dietro questo separé scavammo una buca e ammucchiammo sabbia di mare con il comandamento: ogni uso, due palate di terra. A questo punto mi concessi la sorpresa che avevo tenuta in serbo. Tirai fuori da una tasca dello zaino una bandiera coreana, ricordo romano della Grande Olimpiade e la legai al tirante anteriore della tenda. Faceva un figurone! Così andammo a letto stanchi ma soddisfatti.

Dormivamo saporitamente da qualche ora quando fummo svegliati da canti, cori e chiasso provenienti dalla spiaggia. Ci sollevammo di malavoglia, aprimmo la tenda e sbirciammo fuori; anche Pippo si era avvicinato. Giù, vicino alla battigia, ardeva un gran fuoco, attorno molte sagome accovacciate; qualcuno aveva la chitarra, qualche altro una fisarmonica e avevano preparato un festival. Noi volevamo dormire: avevamo bisogno di dormire. Io e Peppe Fraddeco volevamo strisciare nel buio e fiocinarli tutti, così come facevamo a Pistonello con le galline delle monache. Gli altri ci tennero a bada: non era conveniente bisticciare già dal primo giorno. Ci saremmo allontanati per la pesca e avremmo lasciato tutto lì, sulla spiaggia; ci avrebbero fatto dispetti e ci avrebbero costretti a sloggiare.

Aggozzammo. Quel circo equestre durò fino alle tre di mattina. Finalmente il fuoco si spense e anche i Vandali andarono a dormire. Ci svegliò il sole, caldo e trionfante. La tenda divenne un forno e fummo costretti ad alzarci insonnoliti, irritati, malevoli. Ci sbarbammo, facemmo colazione con dell’ottima marmellata, salimmo su allo spaccio, lasciando  soltanto  U  Previti  e  prendemmo  accordi  con  la  signora Mafalda circa il baratto del pesce: ci avrebbe fornito in cambio il pane fresco, la verdura, le bibite e quanto necessario, naturalmente in proporzione al pescato.

Tornammo al campo senza incontrare nessuno. I disgraziati della notte ora certamente dormivano: erano stanchi, i cornuti.

Chiudemmo tutto nella tenda, preparammo le attrezzature e partimmo per la scogliera, tre a piedi con parte dei bagagli, io e Testerrè via mare, con pinne e materassino e col resto. Avevamo intenzione di pescare tutto il giorno e di cucinare a fuoco nella zona di pesca e rientrare nel pomeriggio inoltrato. Arrivammo alla scogliera e preparammo subito due focolari per Peppe U Previti che avrebbe cucinato e noi ci calammo in acqua alla scoperta di quel mondo sommerso azzurro e incontaminato.

I fondali erano bellissimi, pieni di colore e di vita; ci spargemmo seguendo ognuno il nostro istinto. Operai una prima perlustrazione dall’alto per farmi un’idea generale, poi cominciai a scendere. Vidi una bella triglia che raspava sulla sabbia, calai in obliquo, piano e furtivo e la centrai. Sentii sparare anche gli altri. Inseguii una seppia che mi sfrecciò davanti fino alla rinazza e quando si mimetizzò a terra, la presi. Tornai alla scogliera e cominciai a visitare le tane, mi incrociai con Testerrè e vidi un bel saraco nella sua retina. Anch’io sorpresi un saraco in una tana nascosta e lo beccai. Sentii sparare lontano; alzai gli occhi e vidi Pippo che pescava al largo, nella rinazza; non voleva rischiare sugli scogli la sua unica fiocina.

Presi un altro saraco, aiutai il Fraddeco a tirar su un polipo che colpito, si era intanato profondamente e si teneva avvinghiato agli scogli con tutti i suoi otto tentacoli. Poi presi ancora due perchie. Alzai gli occhi e vidi Testerrè col braccio alzato. Aveva stanato qualcosa di grosso e cercava aiuto. Mi avvicinai, mi fece segno di scendere indicandomi un grosso scoglio piatto, isolato. Guardai sotto e vidi un grande occhio tondo: un grongo. La pesca al grongo è la più difficile e la più elettrizzante. Esso si nasconde in tane impossibili, di difficile accesso e con più uscite. Negli scogli vicini tiene in riserva delle tane alternative. Bisogna essere almeno in due: mentre uno scende cercando di ingrandire l’entrata, l’altro deve sorvegliare da sopra che non se la svigni e in caso vedere dove va. Allargammo l’entrata tanto da poterci infilare la fiocina. Guizzò fuori (lo vidi dall’alto) e cambiò tana. Riprendemmo daccapo. Intanto era arrivato anche Pippo e lavorammo in tre. Finalmente Testerrè era riuscito a colpirlo: lo vidi contorcersi e avvitarsi nella tana. Il grongo possiede una forza formidabile nelle sue spire: è capace di estrarre la fiocina o  addirittura  di romperla.

Caminia – Francuccio e la barca con gli amici

scogli

Ci consultammo e decidemmo che ci voleva l’arpione, così scesi alla spiaggia e lo trovai in una delle sacche; sostituii la cinque denti con l’arpione a quattro alette e rientrai in acqua.

Intanto Pippo e Testerrè, alternandosi, cercavano di allargare la buca d’entrata. Calai io, guardai e vidi un groviglio di spire, aspettai finché non individuai l’occhio e soltanto allora sparai; salii, ripresi fiato, ridiscesi e tentai l’asta: l’avevo colpito. Decidemmo che bastava. Pippo depose sul fondo il suo fucile e ci demmo ad allargare l’entrata per tirarlo fuori. Finalmente smuovemmo un grosso masso in una nuvola di polvere e assieme, Testerrè ed io, tirammo fuori il grongo più grosso che avevamo mai pescato. Mentre risalivamo tenendolo con le due aste, io da una parte e Peppe dall’altra, il grongo si staccò e si diresse verso il fondo: fosse arrivato alla scogliera, l’avremmo perduto. Pippo, però, che aveva seguito la vicenda dall’alto, scese come un Gabriele vendicatore, puntò la fiocina recuperata alla testa della preda e la colpì in pieno. Stremati, infreddoliti ma soddisfatti, tornammo a terra incontro a un Previti saltellante e felice. Oltre al grongo, Testerrè aveva preso una seppia, una cerniola a strisce, due perchie, un saraco e un polipo. Pippo, che aveva preferito pescare nella rinazza aveva nella retina due gajoluni, una bella spigola, due seppie e tre triglie; io avevo una seppia, due perchie, un cefalotto, due sarachi e due triglie.

Ci avvoltolammo nella sabbia calda in attesa di Fraddeco che pescava lontano, inconfondibile sotto la sua cuffia azzurra. Insisteva in un luogo: doveva aver stanato qualcosa di importante. Verso mezzogiorno tornò anche il Fraddeco, con le labbra viola, le mani incartapecorite, la forma della maschera sulla faccia: aveva una magnifica cernia ancora infissa nella fiocina e nella retina un bel cefalo, due sarachi, un polipo, un’altra cernia e una murena. Ci complimentammo a vicenda, lui per il grongo e noi per la cernia e la murena.

Caminìa – Luna d’agosto ’60 – Gino, Andrea, Francuccio

cuminìa

Peppe aveva preparato il sugo e messa su l’acqua per gli spaghetti ma con tutto quel ben di Dio di pesce, concordammo di farcene una abbuffata. Mettemmo da parte il pesce per la signora Mafalda e tutto il resto lo buttammo nella casseruola grande insieme al sugo, procurandoci una zuppa memorabile. Dopo mettemmo a lavare i piatti sporchi nella “lavatrice automatica”.

L’aveva scoperta U Previti mentre noi pescavamo: era un anfratto tra gli scogli, chiuso da una pietra puntuta, nel quale il mare irrompeva e guazzava schiumoso. Mettemmo le stoviglie sporche nella retina, ancorate al fondo con una pietra, affidate al moto instancabile del Mediterraneo; similmente ancorammo anche il pesce avanzato. Così fummo liberi di crogiolarci sulla sabbia.

−  Speramu ca chiji disgraziati n’attàccanu puru stanotti −paventò Testerrè.

− Ah no! − Si incazzò il Fraddeco

− Eu ‘na ‘dia ‘a ‘ndavarria − avanzò u Previti. Ci stringemmo attenti e interrogativi.

− Si vui ‘on jati cchju u piscati, nui porremu dormiri fina a stasira e doppu u fèstival ‘nciu facimu nui −

− E chi vorrissi, u ‘ndi mentimu a cantari? − Lo apostrofò Pippo schifato. – Dipendi ‘i chi cantamu –

(Speriamo  che  quei  disgraziati  non  comincino  anche  stanotte −

− Io avrei un’idea − avanzò u Previti. Ci stringemmo attenti e interrogativi.

− Se voi non andate più a pesca, noi possiamo dormire tutto il pomeriggio e stasera il festival lo faremo noi −

− Dipende da cosa canteremo ).

Obiettò U Previti sorridendo misterioso. Poi cominciò con voce solenne, lenta e intonata.

LIBERA ME DOMINE                                          Liberami o Signore

DE MORTE AETERNA                                          dalla morte eterna

IN DIE ILLA TREMENDA                           in quel giorno tremendo

QUANDO COELI MOVENDI SUNT            quando i cieli crolleranno

ET TERRA.                                                                       e la terra.

DUM VENERIS                                                        Quando verrai

VISITARE SAECULUM PER IGNEM         a visitare il mondo col fuoco

TREMENS FACTUS SUM ET TIMEO.         divento tremulo e timoroso

DIES IRAE, DIES ILLA                                  Il giorno dell’ira, quel giorno

TESTE DAVID ET SIBILLA                     lo attesta David e la Sibilla

M I S E R E R E                                                                      Pietà

M I S E R E R E                                                                      Pietà

E poi attaccò con l’accompagno

MISERERE EIS, DEUS,                                  Pietà di loro – Signore

ET CUM MAGNAM MISERICORDIAM TUAM! (Latino ecclesiastico).

E con la forza di tutta la tua misericordia!

Ne fummo entusiasti, galvanizzati. Fu come l’arringa di Ulisse ai compagni: ora non avrebbe più potuto trattenerci. Dei cinque io e U Previti avevamo continuato lo studio del latino, gli altri lo avevano fatto alla Media. Imparammo subito: in quel silenzio, rotto soltanto dal frangersi della risacca sugli scogli, il nostro canto profondo e convinto, faceva impressione; immaginavamo cosa sarebbe stato sul filo della mezzanotte.

Dormimmo in una grande grotta che si apriva subito dopo la lavatrice. Riposammo tranquilli fino al tramonto. Tornammo al campo. Andammo su allo spaccio e portammo il pesce. Prendemmo in cambio un’anguria maiuscola, dei meloni e dell’uva e ci rimase un credito di 300 lire. Tornati giù, senza parere, ammucchiammo legna vicino alla latrina; controllammo che altri non facessero altrettanto. Spegnemmo il lume e andammo a letto. Tutto pace, tutto silenzio.

A mezzanotte  però  i  Greci  aprono  la  botola  e  scendono  in  silenzio: i Troiani avevano festeggiato, erano stanchi e non avevano lasciato sentinelle, sicuri. Furtivi, alla luce della luna, ammucchiammo legna là dove c’erano le tracce carbonizzate del falò precedente e iniziammo. Il gregoriano, cantato con profonda convinzione, echeggiò lugubre in quella notte d’agosto; si alzava e si abbassava in “risonanze d’organo” (Giusy Verbaro Cipollini ). Osservavamo le case, bianche e placide nel lucore notturno. Cominciarono ad accendersi delle luci, e noi, implacabili.

Immaginavamo le lotte che si combattevano in quelle stanze tra i pacifisti e gli interventisti. Vinsero i primi. Dopo il comportamento della notte precedente, nessuno osò affacciarsi e noi continuammo imperterriti per tre ore. Poi spegnemmo il fuoco, lo sotterrammo e andammo a dormire il sonno dei giusti.

Al mattino ci svegliammo col sole, facemmo colazione, le pulizie e poi piantammo l’ombrellone sulla spiaggia, là dove di solito parcheggiava la gente. Facemmo il bagno e non ci demmo arie: si avvicinarono alla chetichella, prima i ragazzi, poi le ragazze. Ci presentammo, facemmo amicizia. Loro avevano una barca a motore. Per la benzina facevano così: aspettavano che in macchina arrivassero i turisti occasionali; due li tenevano d’occhio e gli altri rubavano la benzina. Un po’ per uno non fa male a nessuno. Ci invitarono ad andare a conoscere le austriache. Andammo tutti, in barca.

Marta e Greta avevano fittato un bungalow a Pietralata, dall’altra parte della scogliera abitata: aveva tre stanze e un ampio pazio sul davanti; naturalmente in legno. Le austriache avevano il piede 44 ed erano tutte in proporzione: due gigantesse di Riace. Bollirono il the e noi ci offrimmo di portare il pesce per la cena. Eravamo così sicuri di noi che invitammo tutta quella gente prima di aver pescato. I ragazzi della compagnia erano tutti più piccoli di noi, tutti fratelli delle ragazze: c’era Gino, il padrone della barca, secco e nero come un magrebino, fratello di Clelia, una ragazza dolce, biondina, tipo slavo; poi c’era Andrea, occhialuto e ridanciano, fratello di Silvana, una rossa procace, liceale saputella e occhialuta anche essa; poi c’era Ninetto con la sorella Gina, una brunetta maliziosa sulla quale il Fraddeco mise subito il suo marchio di proprietà. Con le austriache ci provammo tutti ma furono sempre gentili e distanti. Penso che tra di loro ci fosse qualche rapporto ambiguo, ma allora non sapevamo di queste cose.

Subito tra Peppi U Previti e Clelia nacque qualcosa di particolare: parlavano accalorati zitti zitti; quando camminavamo sulla spiaggia loro rimanevano sempre indietro.

Divennero inseparabili.

Peppe cominciava a scoprire che le ragazze non  sono quel “vas perditionis” come le bolla quel misogino di San Paolo.

Ci pregò di non rivelare il suo segreto: non lo avremmo fatto mai. Peppe ci piaceva, si dava da fare, aveva conquistata la nostra stima, era in un momento cruciale della sua vita e stava trovando da sé la strada giusta.

Andammo a pescare. U Previti, in assenza di Clelia che doveva andare a Tiriolo con i suoi, ci chiese di imparare la sub. Già aveva di suo penne e maschera. Gli diedi il mio fucile e andò alla scogliera col Fraddeco e Pippo. Io e Testerrè volevamo esplorare una pietraia sommersa attorno alla Piramide, uno scoglio emergente vagamente di tal forma. Avremmo pescato a turno, con un solo fucile. La pietraia si dimostrò subito una buona zona di pesca, ricca di tane e specialmente di polipi. Era però profonda, attorno agli otto metri e giù l’acqua, a lungo andare, era fredda. Uno pescava e l’altro si crogiolava sullo scoglio. Prendemmo due polipi, quattro belle perchie e una murena abbastanza grossa. Sentii freddo e dissi a Peppe che io rientravo.

− Pòrtati u pisci, ca mi pisa ‘nta retina! – (Portati via il pesce, chè mi pesa nella retina! −) La mia l’avevo data al Previte.

La retina era un cilindro di rete da sciabbica, rinforzato sopra e sotto da un elastico da camera d’aria. Noi lo infilavamo alla vita e lo giravamo, trattenuto dai due elastici; così formava una specie di sacca nella quale mettevamo il pesce. Io avevo visto nel fondo, incastrata tra due pietre, un’ombrella finita là chissà come. La raccolsi, la liberai dalla stoffa e dai raggi ormai arrugginiti, e ricavai il manico. Con l’aiuto di Peppe infilammo il pescato in questo manico ed io potei tornare a riva, naturalmente tenendo il manico rivolto verso l’alto.

C’era sulla spiaggia una comitiva di milanesi alti, grossi e super accessoriati con mute, coltelli, fucili ad aria compressa.

Non avevano preso niente perché nessuno di loro scendeva a otto metri e poi pescavano dall’alto, senza visitare le tane, come se i pesci uscissero a farsi la fotografia, in posa per loro. Erano stati il nostro spasso per tutta la giornata. Quando arrivai a riva, li trovai tutti intorno ad aspettarmi eccitati. Subito capii perché: loro non si erano accorti dei nostri traffici perché coperti dal promontorio, ora mi vedevano arrivare con un manico d’ombrella e con infilzato tutto quel ben di Dio…

− Ma come hai fatto? −

Mi domandavano perplessi.

− Così −dissi io noncurante e diedi un paio di stoccate con l’ombrella. Me ne tornai alla tenda mentre quelli dietro di me mimavano il mio gesto raccontandosi l’un l’altro la vicenda con gli occhi sgranati.

Tornarono gli altri. Andammo loro incontro perché li vedemmo carichi: avevano preso un grongo più grande  di  quello  del  giorno  prima, 4 sarachi, 4perchie e una razza gigantesca. Non avremmo fatto brutta figura. Raccontammo della burla ai milanesi e ci facemmo un sacco di risate, poi trovammo Gino e ci facemmo portare dalle austriache a cucinare. Gli altri sarebbero venuti più tardi, al ritorno di Clelia, raccomandammo noi. La cena andò benissimo, fummo gli eroi della serata, mangiammo, bevemmo ascoltando musica e cantammo, giovani spensierati e felici. Insegnammo loro anche il “libera me domine” dicendo di averlo appreso dal nostro insegnante di religione. Fu un altro successo. E così, tra campo e pesca, cene e amori eterni destinati a vivere qualche settimana, trascorsero i giorni.

Poi il tempo si mise al brutto, arrivarono le mareggiate e non potemmo pescare; poi si intorbidò. I ragazzi un giorno arrivarono con un coniglio cucinato arrosto con le patatine. Terminammo le riserve (non è che avevamo portato tutto) e decidemmo di partire. Togliemmo il campo, salutammo tutti; il papà di Gino ci avrebbe portati a Montepaone in macchina, Pippo sarebbe venuto in bicicletta alla stazione. Tornammo col treno: le avventure sono belle quando si va, non quando si rientra.

E così passarono gli anni. Il Fraddeco e Pippo se ne andarono a Milano. Testerrè si sposò felicemente e se ne andò a Torino, io cominciai a battere le campagne di Caulonia facendo supplenze nella scuola. Presi altre amicizie, specialmente tra i colleghi, giovani maestri. Divenni inseparabile con Tullio e col fratello Luciano, poi c’era Gianfranco Ariganello (che sposerà una sorella di Fraddeco) e Mimmo Nicotera. Morì mio padre, così, improvvisamente. Avevamo visto assieme una partita di calcio in televisione, fino a tardi. Poi lui si ritirò: − Vaju e mi curcu: ormai ‘sta partita ‘on ‘ndavi cchju storia. − (5)

Furono le ultime sue parole: la mattina corsi di qua, di là a trovare un medico ma quando tornai tutto era già finito.

Anche Tullio e Lucio subirono una grave disgrazia: Pino, loro fratello, avvocato di grido, sposato da poco con un figlio piccolo, morì dopo qualche mese di malattia. Il primo anno, nel giorno dei morti, ci scambiammo i fiori, poi, si sa, allentammo. Ma dopo due anni, era proprio il giorno dei morti, verso le undici, arrivò Tullio tutto compito, con un mazzo di fiori, rimase in preghiera, mi abbracciò e continuò il giro. Rimasi di sasso. Io non avevo fatto niente, né potevo adesso presentarmi con altro mazzo di fiori, come per ripicca. Stavo rimuginando sul problema quando vidi poco distante Don Calogero, mio coinquilino ed ex insegnante di inglese, intento al giro delle cappelle.  Lo  avvicinai e gli spiegai sinceramente la mia posizione e gli chiesi se poteva impartire una benedizione nella tal cappella, che gli indicai.

− Non si preoccupi − mi rassicurò il prete – mi tenga d’occhio e quando mi vedrà nei pressi, mi preceda e ci troveremo là. −

Lo tenni d’occhio, avvicinandomi di conseguenza. Quando fu il momento, entrai nella cappella.

C’erano le donne:

la madre e le sorelle, ancora in lutto. Assunsi l’atteggiamento e dissi le parole che si usano in queste circostanze. Arrivò il prete ed io spiegai che avrebbe impartita una benedizione speciale per la buonanima, in suffragio. A questo punto, mentre Don Calogero baciava la stola, per mia disgrazia e sua, entrò Peppe, vestito da previtocciolo, con turibolo e acquasantiera. Il tempo di guardarci che il prete attaccò:

LIBERA ME DOMINE

DE MORTE AETERNA…

Apriti cielo! Scoppiammo entrambi in un riso convulso e irrefrenabile. Più cercavamo di frenarci e più le risa minacciavano di strozzarci. Le donne ci guardavano allibite, il Prete scandalizzato e incredulo; cominciava da fuori ad arrivare gente attirata da quel chiasso inusitato. Tememmo a un tratto di essere bloccati dentro e scappammo, lui vestito da previtocciolo con cotta e acquasantiera e io dietro. Attraversammo tutto il Camposanto ridendo sguaiati e inadeguati, attirando l’attenzione e la riprovazione di tutti, lui un quasi prete e io un quasi insegnante. Uscimmo come due meteore, ci rintanammo lontano, fra gli ulivi dove continuammo, smettemmo e continuammo ancora finché mosci e disfatti come due meduse spiaggiate, per vie traverse ritornammo in paese.

Peppe non si fece mai prete; entrò in ferrovia, trovò una bella ragazza e la sposò. Io sono quà a ricordare e a narrare di quegli anni che preludevano e preparavano il ’68.

Nel dicembre 2008 salii a Montecatini per il Battesimo della prima nipotina. Portai anche alcune copie dei “Racconti” per gli amici e una la diedi alla Madrina della bimba.

Tornato in Calabria, mi telefonò mia figlia e mi passò il padre della madrina. Aveva letto i racconti. Era originario di Squillace. Avevano la casa a Caminia. Ricordava la notte del “Libera me Domine”.

Aveva riconosciuto il padre sulla barca nella foto di pagina 67: era il fratello di Gino, allora di 8 anni.

Spiaggia di Caminìa

spiaggi caminia

 

 

Rino – Capitolo 3

Quasi contemporaneamente a Tonino, conobbi Rino Sìrtore, detto poi U Tedescu per via dei suoi capelli biondicci. Abitava nello stesso palazzo di mia nonna e suo padre faceva il maestro, come il mio. Aveva un fratello più grande, Nello e due sorelle, una maggiore, Silvana, e una minore, Fulvia. Sia mia nonna che i Sirtore, abitavano al secondo piano, terzo fuori terra. Il primo piano era tutto di proprietà dello zio Silvio, fratello della nonna, che però veniva raramente a Roccella in quanto abitava a Caulonia dove era Segretario Comunale. Da qui il nomignolo della moglie, arcigna e severa: A Segretaria.

Loro erano anche i magazzini del piano terra, tranne un piccolo sottoscala che mia nonna teneva come cantina, finché ebbe la vigna al Bosco, e il forno, chiuso in un ampio magazzino con vasca e acqua, sporgente verso un sentiero tra la ferrovia e la Provvida, che era lo spaccio dei ferrovieri. Tra il forno di mia nonna e la ferrovia vera e propria, lato mare, c’era un orto con un limone e un fico gigantesco.

Al tempo degli agotti, cioè dei primi fichi, noi ragazzi scalavamo il fico e inseguivamo i succulenti frutti, specie quelli c’a cammisa sciancata (Con la camicia strappata, cioè con la buccia fessa per maturazione). Così io, Rino, Nello e U Bumbularu mangiavamo a josa quella grazia di Dio e porgevamo ogni tanto qualcuno alle piccole Fulvia e Mirella (mia cuginetta, pupilla di nonna) che aspettavano ansiose coi visetti protesi in alto. Di sotto passavano i ferrovieri del Personale Viaggiante che ci chiedevano fichi: passa uno, passa l’altro; torna uno, torna l’altro: una scocciatura.

Torna uno, torna l’altro: una scocciatura. Allora Rino, per ripicca, trovò un pajazzo, cioè un fico nero ma ancora duro, scese dall’albero e lo svuotò con un chiodo. Noi guardavamo interrogativi dall’alto. Quando il fico fu vuoto, Rino corse al pollaio di mia nonna e lo riempì,  sempre  col  chiodo,di merda di galline. Risalito sul ramo, lo appese in qualche modo alla pianta: sembrava vero. Arrivò un ferroviere a chiederci il solito fico: Rino, svelto come uno scoiattolo, si ‘mpercicò (S’inerpicò) sul ramo, raccolse il fico manipolato e lo porse al malcapitato: Apriti cielo: ingiurie, bestemmie, scatarramenti, pietrate. Sloggiammo ridendo e sghignazzando. Da quel giorno i ferrovieri, che si erano passati la parola, ci lasciarono in pace.

Al Segretario non rubavamo soltanto i fichi ma anche l’uva. Da terra cresceva una pergola il cui tronco faceva una parabola alquanto ampia e poi copriva interamente il  vasto  terrazzo al primo piano;  poi saliva su quello più piccolo di mia nonna e infine sulla stampiata (Loggetta) tra i tetti. Sembrava una pergola benedetta tanti frutti produceva: grappoli grossi e penduli di un’uva rosata, dolcissima.

Una sera io e Rino ci eravamo arrampicati sulla pergola del Segretario ed eravamo a pancia in giù tra le fronde a staccare i grappoli, quando all’improvviso si aperse la porta della casa e apparve gente. Noi rabbrividimmo e ci acquattammo più che potemmo tra i tralci della vite impotata, cercando neanche di respirare: sotto di noi la terribile Segretaria e zio Silvio, sempre alto ed elegante, impartivano disposizioni a due domestiche che sistemavano tavolini tutto intorno, e poi tovaglie e sedie sparse. Capimmo: stavano preparando una festa. In inverno le davano sovente nel salone della casa, ora d’estate l’avevano organizzata sul terrazzo. Cominciava ad imbrunire, lì sotto era sempre un viavai di domestiche che sistemavano guantiere con dolci, bottiglie di rosolio verde, azzurro, rosso, giallo… Attorno dei bicchierini minuscoli, quanto un pollice.

Si fece scuro. Cominciò ad arrivare gente ‘mpistunata (vestita elegante) , signore in abiti scollati, frotte di ragazzini.. Cominciarono a ballare: valzer, tanghi, mazurche dal grammofono a manovella, posto proprio sotto di noi. E bevevano rosolio e mangiavano dolci e fumavano e noi fermi lì come delle Dafni  arboreizzate.

Eravamo anchilosati, avevamo la vescica piena, il ferro filato, là dove premeva, era diventato uno strazio, ma non osavamo muoverci. Poi sentimmo la mamma di Rino chiamarlo accorata da ogni balcone, la udimmo mandare Nello, disperata a cercarlo. Immaginavo lo stesso a casa mia.

La festa finì verso l’una, poi dovettero sparecchiare e passò un’altra e finalmente si chiuse la porta, il buio, la pace.

Ci muovemmo lentamente, rinculando piano; ci portammo verso il limone e svuotammo le vesciche contro il tronco. Rino tornò a casa per le scale, io attraverso la ferrovia.

A casa c’era ancora la luce accesa: c’era mia madre in piedi, mio padre, zia Pierina, Annina ed Emilia. Dovetti spiegare: dissi le cose come erano andate, tralasciando il particolare dell’uva. Eravamo saliti, io e Rino, per prendere la palla che si era impigliata sui rami. Raccontai della festa, di come ci eravamo tenuti aggrappati, non visti. Finì a ridere e andammo a letto. La mattina mio padre mi fece una ramanzina e mi promise con severo e terribile cipiglio che se questa volta l’avevo scampata, la prossima avrei pagato la nuova e la vecchia. E la scadenza arrivò a Natale.

Mia nonna si mise a preparare i viscottina: erano dei taralli di un profumo e di una fragranza irresistibile. Lei parte li mandava alla figlia Ida, maritata Cruciani a un capostazione romano, ora di servizio a Saline dove abitavano; parte li mandava a Torino a certi parenti ricchi, per disobbligarsi delle gentilezze che facevano al figlio Gino, studente al Politecnico. Dunque nonna preparava i viscottina giù, nel forno e noi ragazzini assistevamo curiosi: aiutavano mia madre e mio padre e anche zia Elda, grassa e ridanciana, buona come il pane che era dovuta tornare da Bressana Bottarone perché il marito, Gonzales, aveva perso il posto per beghe contro il Fascismo. Zio Tonino ora si ingegnava a costruire fantasiosi e bellissimi giocattoli di legno.

Da sinistra: Valerio, Pippo, Rino, Fraddeco, Francuccio, Giorgio Meo. Ha scattato Testerrè

valerio, pippo

Finita la preparazione dei taralli, chiusero il magazzino del forno per lasciarli lievitare e noi ragazzi ci mettemmo a giocare: i Sirtore, io e Valerio, Carlo Gonzales e Sergio Cruciani miei cugini: le femmine si raccolsero tra di loro.

Nello raccontava dei morti, noi zitti e concentrati. Di come uno avesse fatto una scommessa ed era entrato solo, di notte, nel cimitero, parimai. Doveva portare fuori, per prova, un rametto di cipresso. Nello scavalcare il muro di cinta, però, si sentì afferrare di dietro per il cappotto: certamente erano i morti che lo volevano portare con loro, vivo nella tomba. Seguivamo il narrante con gli occhi spiritati. A notte, poi al buio, rincantucciati nel letto fino al mento, ripensavamo alla storia e ci rannicchiavamo fetali fino al sonno.

Ordunque, quando i dolci furono lievitati, prepararono il forno. Come ci piaceva guardare quell’inferno rovente, specialmente quando vi inserivano cespugli secchi di ginestra che, essendo vuoti nelle foglie all’interno, scoppiettavano come gli spari di S. Vittorio. Una volta messi nel forno, questo veniva chiuso e li si lasciava dentro per una mezzoretta.

Allora avemmo l’idea: perché non bucare il forno da dietro la ferrovia e arraffarci un po’ di taralli ciascuno? Detto fatto. Scomparimmo e aggirammo la posizione: trovammo dei ferri e dei grossi chiodi e iniziammo il misfatto. Il forno è costruito notoriamente di mattoni e fango, quindi fu facile scardinare un po’ di mattoni ed estrarre con delle canne i dolci roventi. Li consumammo nel vano sotto la tettoia della Piccola, come era chiamato il deposito pacchi della stazione, dove c’era la bilancia che pesava i vagoni dei treni. Erano ancora mezzo crudi, ma insaporiti dalla bravata. Quando tornai a casa, da nonna, mi venne incontro zia Elda furtiva e affannata:

− Zitto, nasconditi, non farti vedere sennò tuo padre ti ammazza! −

Non riuscivo a capire il guaio che avevamo combinato: me lo spiegò lei. A parte il fatto che rubare la roba  degli  altri è  peccato mortale e bisogna confessarlo subito perché, se si muore con  questo peccato si va dritti all’inferno, poi il forno dal buco aveva perso calore e i viscottina si erano rinsecchiti e afflosciati: perduti, nonna disperata. Comunque mi nascosi dentro, tra un mobile del corridoio e il muro. Tutti gli altri ragazzi fuori, sulla veranda, in attesa del teatro, loro impuniti come sempre.

Tornò mio padre ringhiante rabbia e voglia di vendetta. Era andato a cercarmi alla piazzetta; capì dall’atteggiamento degli spettatori che io ero dentro, protetto dall’omertà delle donne e si mise a cercarmi sbuffando come un mastino: sotto i letti, davanti ai balconi, in cucina, dietro le porte, stanza dopo stanza, con metodo. Quando lo sentii arrivare, scappai cercando di guadagnare le scale. Ci ero quasi arrivato ma il Terribile si tolse una scarpa e me la lanciò contro con violenza. Mi colpì al fianco: non ruzzolai perché riuscii ad aggrapparmi alla ringhiera di ferro. Mio padre mi afferrò vincente, mi trascinò dentro di peso, raccolse una scopa, la spezzò in due sul ginocchio e giù, botte da orbi. Non potei muovermi per un mese, poi, come tutte le cose del mondo, il dolore passò e ritornai ai giochi e ai compagni. Allora non c’era ancora il telefono Azzurro contro i padri-padroni.

Rino aveva una macchia davanti all’occhio destro per cui non aveva una percezione perfetta, specialmente delle profondità e delle distanze. Se noi cadevamo una volta, Rino cadeva due, per cui era sempre smendijato e scorciato (Graffiato e ulcerato). Noi allora non capivamo e pensavamo che fosse sgalapato (Maldestro ) di natura e quindi era oggetto delle burle, anche pesanti. Una volta io e Tonino trovammo a mare, dopo una mareggiata, una palla di legno. La tinteggiammo bianca e organizzammo lo scherzo a Rino. Ci sistemammo sulla piazzetta, quando lo vedemmo arrivare, come se stessimo giocando a pallamano. Quando arrivò alla distanza voluta, gliela lanciammo:

− Rinu, i testa! − (Rino! Di testa! ) Rino colpì forte di testa e soltanto allora si

accorse dell’inganno.

Risate a non finire.

Un’altra volta lo vedemmo andare alla Posta. Questa si trovava allora in un’ala dell’attuale Municipio: gli preparammo la trappola. Ci sistemammo sotto l’andito del portone del palazzo Bova, come per giocare a carte. Sulla strada gettammo la cuffia azzurra del Fraddeco, nascondendo all’interno una grossa pietra. Rino tornava sbattendo sul cemento della strada gli zoccoli di legno. − Rino, jèttinci ‘nu carci i ‘ssa cuffia !− (Rino, dai un calcio a quella cuffia!) Gli chiedemmo con noncuranza. Rino gettò gli zoccoli, due saltelli eleganti e via con forza, come si calcia un rigore. Cominciò a balzare dolorante di qua e di là tenendosi il piede, tra i lazzi di noialtri.

Erano venuti ad abitare a Roccella due giovani zii di Rino, novelli sposi. Avendo saputo a Soverato che qui non c’era, avevano aperto una latteria sul Corso, là dove stringe, vicino all’alberguccio d’i Mbilla. Lo gestivano assieme, alternandosi al banco. La sera, chiuso il negozio, andavano da Rino per stare in compagnia dei suoi. Rino mi avvicinò furtivo e mi disse:

− Tu voi u facimu sordi? − (Ci stai a fare soldi?) Annuì dubbioso.

− Però ccittu e musca cu tutti! − (Però zitto e mosca con tutti!)

Promisi. Rino mi fece scendere dal ponte di Rossetti, poi salimmo sulla ferrovia utilizzando una scala a pioli che teneva lì Vigilanti della bettola; attraversammo i binari al buio tornando indietro; dall’altra parte aprì un cancelletto di ferro e seguimmo un breve vialetto. − Sssssss! − Mi intimò Rino col dito di traverso alle labbra. Non mi capacitavo di dove eravamo.

Rino intanto mise una mano tra i cespugli e tirò fuori una chiave, aprì una porticina di legno ed entrammo; chiuse la porta, aprì la luce e capii: eravamo nella Latteria. Rino andò al banco, tirò un cassetto:  era  tutto  pieno  di  monetine.  Ne prendemmo una manciata ciascuno e poi richiudemmo furtivi, rimettemmo la chiave a posto e via per le bottegucce a far compere di dolciumi, liquirizie e altre sciocchezzuole. Così ogni sera, assicuratici che gli sposini erano da Rino, noi perpetravamo il nostro misfatto. Andò a finire che la Latteria fallì e i due giovani dovettero chiudere e rientrarono a Soverato.

Al pensarci mi prenderei a calci da solo. Soltanto oggi mi accorgo della grande vigliaccata che avevamo commesso: si dovrebbe davvero poter vivere due vite per trarre lezioni dagli errori della prima!

Rino, per colmo, era anche nazzijuso (Schifiltoso): aveva schifo di tutto; se gli davamo qualcosa, si assicurava che avessimo le mani pulite. Questo faceva di lui una vittima prelibata. Una volta che si era ‘mpistunato per andare al matrimonio, ci incontrò alla piazzetta:

− Chi bella cravatta chi ndai, Rinu! − (Che bella cravatta che hai Rino! ) lo lodò Pippo Favoino, poi si avvicinò e la prese in mano come per guardarla meglio. Rino lasciava fare compiaciuto. A un certo punto Pippo la aprì con forza e si soffiò violentemente il naso, lasciandovi uno scracco abbondante e giallastro. Rino se la tolse schifato e poi andò a vomitare dietro la stazione. Un’altra volta organizzammo una gita da un amico in una sua casa di campagna lungo l’Amusa.

Andammo tutta la compagnia: Rino, io, U Bumbularu, Giorgio Meo, Peppe Falcone, Alberto Misuraca, Testerrè e Aurelio, il padrone di casa. Raccolti i soldi, avevamo comprato un capretto che avremmo cucinato al forno. Mentre alcuni cucinavano, altri giocavano a carte; Alberto, U Bumbularu e Fraddeco andarono a caccia di lucertole e buffe (Rane) con le fionde e la cerbottana: a mezzogiorno ne avevano una bella collezione. Allora U Bumbularu sentenziò:

− Mo’ cucinamu puru i licerti: cu’ no’ mangia i licerti non mangia mancu caprettu! − (Adesso cuciniamo anche le lucertole: chi non mangia le lucertole non mangerà neanche il capretto!)  Figuratevi  Rino.  Il  Bombolaro

intanto, con un coltello tagliava le lucertole decapitate a metà, per lungo, tolta la testa e anche la coda:

− Guardati, sunnu comu alici! − (Guardate, sembrano alici! )

Le dispose poi in una landa e le mise nel forno dove, in un rollo, cuoceva il capretto. Ci mettemmo a tavola: pane, sottaceti, salame, capretto, olive e… licerte. Il Bombolaro ne prese una per il mozzicone di coda e la ingoiò così, guardando in alto e torcendosi come il ragazzo del Caravaggio. Piano piano, seppur riluttanti, lo imitammo tutti. Tutti tranne Rino che rimase all’urmo del capretto tra i lazzi di tutti.

Tornammo in quella casa un’altra volta, dopo qualche anno. Questa volta senza capretto e senza condizioni, avevamo promesso a Rino. Cucinavo io e Aurelio: gli altri giocavano a carte.

Aurelio mi aveva fatto vedere le galline, l’asino e il maiale. Dalla zimba (La casa del maiale) usciva un canale di cemento per l’eliminazione del liquame quando veniva lavato con la pompa. In questo umidore puzzolente scoprii dei vermi lunghi e rosati.

− Pàrunu bucatini! − (Sembrano bucatini! ) Osservò Giorgio Meo dietro di me.

Da qui l’idea. Al tavolo delle carte si davano il cambio. Durante una pausa di Peppe Fraddeco, gli fischiai l’idea e gli chiesi di tenere occupato Rino fino al pranzo: eravamo maestri nella falsa politica. Quando scodellammo la pasta, facemmo le porzioni senza scomodare i giocatori. Nel piatto di Rino misi prima tre bei vermi di quelli descritti e poi versai sopra gli spaghetti già conditi e informaggiati. Finalmente i giocatori si degnarono di venire a tavola.  Servimmo gli spaghetti e cominciammo a mangiare: soltanto in tre sapevamo della burla. A un tratto Rino gettò un urlo terrificante, mostrava qualcosa nel piatto, si dava gran pugni nel petto e cercava con le dita in gola di rovesciare la pasta poi, come un forsennato,  iniziò una corsa pazza intorno alla casa. Gli altri, stupiti, guardarono nel piatto e capirono.

Rino girava velocissimo, ad ogni passaggio cercavamo di acchiapparlo ma lui scansava. Finalmente lo fermammo esausto, rosso e sudato. Lo rimettemmo a sedere e si stava tranquillizzando e noi lo consolavamo, quando Peppe :

− E poi, mu t’a pìgghji tantu pe’ quattru vermiceji… − (E poi a prendertela per quattro vermetti… )

−  Comu quattru? − (Come quattro? )

Si attisò tutto Rino . – Eu vitti sulu tri, l’attru chi fini fici? – (Io ne vidi solo tre, l’altro che fine ha fatto? )

− E si vidi ca tu mangiasti! − (E si vede che l’hai mangiato! )

Concluse serafico il Fraddeco. Altri sputi, altri vomiti, altra corsa.

Poi Rino se ne andò a Roma, anzi a Ostia: suo padre aveva vinto il concorso per Direttore Didattico e non lo vidi più. Sì, potrei quando sono a Roma dalle mie figlie, prendere la guida telefonica e trovare facilmente: Sirtore Salvatore. E poi? Che persona mi troverei davanti? Potrei dire al Salvatore ragionier Sirtore, magari occhialuto, calvo e con pancetta:

− Ti ricordi quandu ti fici u ti mangi i vermi? − (Ti ricordi quando ti ho fatto mangiare i vermi? )

Comunque ora è successo un fatto nuovo. La figlia del Bombolaro fece amicizia all’Università di Roma con una ragazza. Senti, senti, era calabrese; senti, senti, aveva origini roccellesi: senti, senti, era la figlia di Rino. Tonino è andato a trovarlo. Appena terminate queste note, alla prima occasione, lo andrò a trovare anch’io (col giubbotto antiproiettile, non si sa mai!).

E così ho fatto spedendogli i Racconti nel maggio 2004. Mi telefonò e in settembre ci incontrammo a Roma.

Rino è morto il 3 ottobre 2006. Il 24 agosto era venuto a Roccella dopo trent’anni. Ci siamo reincontrati dal Bombolaro e abbiamo scattato la foto ricordo. Era sereno e allegro. Al rientro a Roma gli fu diagnosticato il male che in due mesi lo avrebbe ucciso.

Rentrèe 2006. Francuccio (in piedi), dietro Testerrè e il Bombolaro, davanti Rino e Peppe Fraddeco

rentreè