Fin lì era stata un marcia trionfale. La “Vecchia Signora” (la Juventus) aveva sbaragliato di brutto le avversarie plurititolate che il sorteggio le aveva destinato di fronte. Tutti sapevamo che questa era l’annata buona dopo tante delusioni.
Due volte eravamo arrivati in finale e due volte avevamo perso miserevolmente per un golletto a zero, sia con l’Aiax che con l’Amburgo.
Quest’anno no! Quest’anno eravamo i migliori d’Europa e forse anche del mondo: avevamo in squadra ben sette campioni dell’82 e in più Boniek e Platinì, e scusate se è poco.
Alle semifinali ci era toccato il Bordeaux, squadra tosta da non tenersi nel buggino (taschino); ma a Torino l’avevamo umiliata con un secco tre a zero. La trasferta di ritorno in Francia sarebbe stata una passeggiata. Eravamo in finale e questa volta non l’avremmo persa.
A Bordeaux però la Juve, forse troppo sicura, forse avendo sottovalutato gli avversari o credendoli già rassegnati, si mise a giocherellare per salvare gambe e risultato: per qualificarsi avrebbero dovuto segnarci quattro reti e noi nessuna, e quando mai.
Eravamo pigiati quella sera dinanzi al televisore nella nostra sede di Roccella “Bontrap”, cioè dedicata al magico duo Boniperti-Trapattoni.
Man mano che trascorrevano i minuti, quella che pensavamo dovesse essere una pratica già chiusa, diventò una salita impervia e ingarbugliata.
I Francesi ci credevano, caricati al massimo, giocavano di prima e sbucavano da tutte le parti, sostenuti da un tifo infernale, ininterrotto, coinvolgente. Scirea, Gentile, Cabrini, Brio e gli altri avevano un bel da fare a tappare i buchi e a spedire affannosamente in corner.
Quando poi, circa al ventesimo, segnarono, divennero furie scatenate.
Capivano la cattiva serata dei nostri e cercavano la qualificazione, che appariva loro a portata di mano.
Finì il primo tempo e noi eravamo sudati, ma ancora speranzosi: vedrai che adesso cambia musica, ci penseranno, si assesteranno con più convinzione e vedremo la nostra solita Juve schiacciasassi.
Invece tutto continuò sul copione del primo tempo: loro a premere e noi in affanno.
Passavano i minuti e tutti gli sguardi indugiavano su quelle lancette di una lentezza esasperante.
Alla mezz’ora segnarono di nuovo con un tiro da lontano che incocciò l’incrocio, lasciando Tacconi esterrefatto senza aver visto neanche la palla. Ora il purgatorio di prima divenne inferno vero.
Se prima c’era la speranza di qualche contropiede, adesso tutti i nostri erano barricati in difesa, liberando alla disperata.
Tacconi a cinque minuti dal termine salvò il risultato con una parata miracolosa.
Negli ultimi minuti sembrava l’assalto a Forte Alamo: meno quattro, meno tre, meno due, meno uno …… Fineee!
Saltammo in piedi dopo tanta tensione, uscimmo con le macchine a carosello sventolando impazziti le nostre bandiere in faccia ai Milanisti e Interisti che, dopo le nostre finali perse erano usciti a festeggiare: per anni sul muro della segheria campeggiò la scritta: GRAZIE AMBURGO. Vigliacchi!
Ora tutti a Bruxelles! Il Liverpool? Ne faremo polpette. La finale vera era stata questa col Bordeaux, veramente duro a morire. E chi sarà mai questo Liverpool?
Immediatamente nei giorni a seguire contattammo Torino per prenotare i biglietti per Bruxelles. Eravamo prima in dodici, poi in trenta, quindi in sessanta e forse altri se ne sarebbero aggiunti.
La risposta arrivò via fax, rapida e concisa: data l’enorme richiesta di biglietti da parte dei clubs periferici, ad ognuno di essi potevano essere assegnati soltanto dieci biglietti.
Io allora ero nel direttivo e, quindi, non avrei avuto problemi ad andare, ma con me volevano partire Stefano Romeo, mio zio coetaneo e Tonino Caridi, inseparabili e volevamo godere assieme, fianco a fianco quest’avventura, non in settori separati. Rinunciai e ci rivolgemmo a un’Agenzia di Milano per tre biglietti, dove saremmo arrivati in treno, poi in pullman fino a Bruxelles.
La partita era fissata per il 29 maggio alle 20.15.
Il 27, coperti di sciarpe, bandiere e gagliardetti, pavesati a festa come tanti alberi di Natale, eravamo in stazione.
Il treno arrivò alle 14.30, già sventolante di bandiere. Man mano lungo le Stazioni della Jonica salivano altri gruppi: ci abbracciavamo e ci salutavamo solidali. Da Lamezia sonnecchiammo un poco e alle 10 di sera fummo a Roma.
Il treno non sostò a Termini, ma alla stazione di passaggio di Roma Casilina. Ci aspettava, malgrado l’ora, un folto gruppo di sciagurati tifosi romanisti e forse anche laziali, coalizzati per l’occasione, ma frenati da un cospicuo reparto di poliziotti.
Non ci furono incidenti, ma per tutti i dieci minuti della sosta, dovemmo sorbirci l’odiosa canzone che da poco circolava contro di noi:
O Maggissè! (O Magissè!)
O Magginì! (O Magginì!)
Volemo morto a Platinì,
mortò Scirea, mortò Cabrini,
volemo morti i Juventini.
Noi ci chiudemmo e abbassammo le tapparelle per paura di qualche sassata, ma appena il treno si mise in moto, aprimmo tutti insieme simultaneamente i finestrini e gli misurammo il braccio.
Stefano fece di meglio: si aggrappò ai ferri delle cuccette, si calò i pantaloni ed esibì il nudo deretano a ripago delle offese.
Mattina del 28 fummo a Milano. Facemmo colazione in un bar della Stazione e poi caracollammo con calma verso l’Agenzia, ritirammo i biglietti e fummo liberi fino alle 17.
Visitammo il Centro, mangiammo in un alberghetto con giardino e riposammo poche ore in una stanza a tre.
All’ora convenuta eravamo in Agenzia e alle 17.30 partimmo per Bruxelles, juventini di Milano, di Bergamo, di Udine, Pugliesi, Siciliani, Sardi, di tutta l’Italia. Viaggiammo di notte cantando i nostri cori e alla mattina di quel fatidico 29 maggio fummo a Bruxelles.
Scendemmo alla Stazione Autobus in una piazza centrale: ancora era troppo presto per andare allo Stadio. Ci saremmo visti, dopo la partita, alla fermata N° 72.
Avevamo tutta la giornata davanti: Bruxelles, a noi!
Qui la prima delusione. Pensavamo di trovare una città in festa per il grande evento sportivo, su cui erano puntati gli occhi dell’Europa e del mondo intero: bandiere delle due squadre, delle due nazioni finaliste … Nulla.
Chiedemmo anzi dove fosse lo stadio Heysel e molti non ce lo seppero indicare, poi Stefano ricordò di aver letto che era in prossimità dell’Atomium e così fu più facile individuare la direzione.
Facemmo colazione in un locale italiano, da un simpatico ragazzo di Caserta, e quindi, senza fretta, lentamente, prendemmo la strada dell’Heysel. In una piazzetta laterale, improvviso e inaspettato ci schiaffeggiò un cartello: NOI ODIAMO I NEGRI E GLI ITALIANI.
Era appeso tra due finestre fiorite, visibilissimo sia dalla strada che dalla piazzetta. Di sotto un Bar-Tabaccheria, una Chiesa Valdese, un Pronto Soccorso Veterinario, una Lavanderia chiusa.
La gente passava indifferente senza un commento, un moto di attenzione.
─ A cchjappamma a vacca…..! (L’abbiamo acchiappata la vacca… − (dai testicoli))─ Sbottò Stefano.
─ E chista ‘ndavarria u m’esti a Capitali d’Europa? ─ (E questa dovrebbe essere la capitale d’Europa? ) Aggiunsi io.
E Nino concludendo: ─ ‘Viti vui quali ‘ntinna ‘nd‘arriva i ‘ssa campana… ─ (Vedete voi quali rintocchi ci giungono da questa campana… )
Restammo ancora a guardare quello sconcio e proseguimmo in silenzio, ancora increduli.
Verso le undici cominciammo a vedere i primi Inglesi.
Eravamo entrati in un negozietto di ricordi per trovare qualcosa per le nostre mamme, quando li vedemmo entrare.
Ci irrigidimmo subito, pensando a quel che avevano combinato appena qualche settimana prima a Stradford.
Appena ci videro ci circondarono sorridenti e, con grandi manate sulle spalle, ci invitarono a gesti a scambiare qualcosa.
Gli demmo due gagliardetti e una sciarpa e loro ci regalarono una bandiera senza manico e una maglia col N° 8.
Vollero anche scattare con noi delle foto ricordo e ci mettemmo in posa, a bandiere invertite, dinanzi all’autoscatto.
Proseguimmo. Mentre bevevamo una coca su una panchina, arrivò un altro gruppo, questo molto più numeroso, saranno stati una ventina e tutti giovani.
Gelammo. Loro richiesero a gesti i nostri simboli, proponendo il medesimo scambio e posammo anche per la solita foto, ma quelli insaccarono le nostre cose, ci fecero un gestaccio e se ne andarono sghignazzando e tracannando birra, in bottigliette
da tre quarti.
─ E ndi jiu puru bona – Sussurrai – Ma mo ‘ndavanzi ‘ndavimu u stamu c’a ricchji i fora com’o Sdragu! ─ (E ci è andata anche bene. Ma d’ora innanzi dovremo stare con le orecchie attente come quelle dell’Orco )
E gli altri non poterono che approvare, seri e preoccupati.
Era suppergiù mezzogiorno quando arrivammo all’Heysel.
Ci aspettavamo uno stadio moderno, degno di tanta manifestazione, ma fu un’altra delusione: vecchio, squallido, cadente e mal rattoppato sembrava ‘mpingiutu c’a sputazza (appiccicato con lo sputo). Gli ingressi erano più da pollaio che da campo sportivo, stretti e bassi.
Certamente i Belgi avevano cercato di rimediare in fretta per renderlo un po’ presentabile. C’era infatti a lato un cantiere da poco dismesso, sopra un montarozzo, anzi palesemente abbandonato in fretta poiché notammo, ammonticchiati alla rinfusa, materiali di scarto, sia in legno che in mattoni e financo in ferro.
Molta della gioia iniziale cominciò a mutarsi in preoccupazione.
E se quei materiali li avessero adocchiati gli hooligans?
Comunque non era problema nostro: ci avranno pensato le forze dell’ordine e avranno provveduto a parare il pericolo a tempo e modo.
Il piazzale dinanzi allo stadio era quasi deserto. Era tutto chiuso per la pausa pranzo.
Comunque uno spazzino ritardatario ci informò, a gesti, che le biglietterie avrebbero aperto alle 15 e i cancelli alle 17.30.
Stefano, il miglior mimo dei tre, fece prima il gesto del mangiare e poi mostrò un gagliardetto tricolore e quello, sorridendo ci indicò una strada oltre l’Atomium, ci fece il segno della svolta a destra e mimò il numero 500. Credemmo di capire
che il Ristorante italiano si trovava a 500 metri per quella strada, in una traversa laterale.
Ci avviammo e dopo venti minuti fummo dinanzi al “Cuore Italiano”.
Entrammo e ci accomodammo sotto una spaziosa veranda con vista di uno spicchio di Atomium. Alle pareti, foto dei proprietari con varie personalità italiane: Claudio Villa, Modugno, la Pavone e Teddy Reno, Aurelio Fierro, Mino Reitano ed altri.
Venne al tavolo un giovane di circa vent’anni.
− Di dove siete? – Ci domandò cordiale, ansioso di parlare con Italiani.
─ Calabresi ─ Rispose Nino.
─ Calabrisi? E ‘i duvi? ─ (Calabresi? E di dove? ) Riprese il giovane illuminandosi tutto e accomodandosi sulla quarta sedia.
─ D’a provincia i Riggiu ─ (− Dalla Provincia di Reggio ) Aggiunsi io.
─ Sapiti i duvi sugnu eu? ‘I Condofuri! ─ (Sapete di dove sono io? Di Condofuri! )
─ E nui d’a Rucceja ─ (E noi di Roccella ) Completò Stefano e ci alzammo abbracciandoci e presentandoci.
─ E mo cu’ si movi i ccà. Sapiti i quant’anni ‘ndavi chi non sentu parrari u dialettu? Quattr’anni! Ginu! ‘Ndavimu Calabrisi ccà, d’a Rucceja! ─ (E ora chi si muove da qui. Sapete da quanti anni non sento parlare il dialetto? Quattro anni! Gino, abbiamo calabresi qua, di Roccella! )
Poi si rivolse a due ragazze in francese e capimmo che lasciava ad esse i compiti di bottega per potersi dedicare soltanto a noi.
Arrivò Gino, più grande, con un sorriso largo d’a Dogana o Cafuni .
Ci abbracciò, sapemmo tutto di loro.
Per primo, nel ’62, era arrivato il padre e s’era messo a
fare il cameriere. Poi chiamò la famiglia e arrivarono i due fratelli e la madre.
Anche loro due si misero a lavorare nella ristorazione e la madre in una lavanderia.
Alla morte del proprietario avevano rilevato il locale, prima in affitto e poi lo avevano comprato dagli eredi, dandogli nome e aspetto tipico. Degli affari non si potevano lamentare.
─ I biglietti i ‘ndaviti? ─ (I biglietti ce li avete?) Ci chiese a un tratto Marcello.
─ Si, i ‘ndavimu ─ (Si! Ce li abbiamo) lo informammo.
─ Assati m’i viju, ca ccà circolannu ‘nu ‘mbujinu i biglietti farzi ─ (− Fatemeli vedere chè qui circola un fottìo di biglietti falsi )
Aprii il borsone e li trassi dal portafoglio, porgendoglieli.
Avutoli in mano approvò, poi li girò sul retro e ci invitò a guardare.
C’era una scritta in caratteri piccoli, naturalmente in francese.
Ce la tradusse. Apprendemmo solo adesso che la U.E.F.A., proprio per questo incontro, per la Finale, si toglieva da ogni responsabilità, quasi presagisse il futuro, delegandola agli organizzatori locali.
Mai successo prima.
Entrò intanto un gruppetto di Italiani, quattro ragazzi e due ragazze.
─ Ci servono due biglietti del settore N. Sapete dove possiamo comprarli? ─
─ Ce li ho io i biglietti! ─ Saltò su Marcello, scattando come una molla, e trasse di tasca un mazzo di venti, venticinque biglietti:
─ Settore N? Eccoli! ─ E li consegnò al richiedente.
Sapemmo così che il nostro nuovo amico, Marcello Spataro di Condofuri, faceva il bagarino.
Tornò al nostro tavolo, questa volta in forma ufficiale, con tanto di taccuino e matita:
─ Allura, paisà, chi vi preparamu? ─ (Allora, paesani, cosa vi prepariamo? )
─ Certu ca non vínnimu ccà u ndi mangiamu i schifezzi loru, sinnò jemu a ‘nu Ristoranti qualsiasi ─ (Certamente che non siamo capitati qua per mangiare le loro schifezze, altrimenti saremmo andati in un Ristorante qualsiasi ) esclamò Nino convinto e interpretando il pensiero di tutti.
─ Ma vui u voliti ‘nu pocu i stoccu bonu, ma stoccu speciali d’a Lettonia?! ─ (Ma voi lo volete un po’ di stocco buono, ma speciale della Lettonia?! )
─ A la midò ─ scattò su Stefano ─ ca cu’ penzava ca ‘ndavia u vegnu a Brusselli pemm’u mi mangiu u stoccu bonu! ─ (Per la miseria, chi pensava di venire a Bruxelles per assaggiare un po’ di stocco buono )
─ Voliti puru ddu’ fila i pasta? ─ (Volete anche due fili di pasta? )
─ No, no, Marcè, facimu ‘na cosa leggera: pórtandi ddu’ assaggini i tuttu u stoccu chi ‘ndai e basta. Sinnò nd’abbuffamu e ndi pigghja a sonnolenza.─ (No, no, Marcello, facciamo una cosa leggera: portaci due assaggini di tutto lo stocco che hai e basta. Altrimenti ci abbuffiamo e ci prende la sonnolenza )
─ Comu vuliti ─ rispose l’amico ─ però ‘na buttigghja i vinu v’a offru eu, e si mi permettiti, vegnu u mangiu cu vui, accussì continuamu u discurzu ─ (Come volete, però vi offro una bottiglia di vino e, se permettete, mangio con voi così continuiamo il discorso )
─ Quale onore? ─ Rispose Nino Caridi, sfottendo serio.
E così mangiammo e bevemmo l’ottimo vino offertoci da Marcello, il caffè e poi restammo a chiacchierare. Si erano fatte le 16.30.
─ Ma u Stadiu u vidístivu? ─ (– Ma lo stadio l’avete visto? )
Tornò l’amico sull’argomento principale.
─ U víttimu ─ gli risposi sconsolato ─ ma mi pari ca staci a jirta p’e scummissa ─ (L’abbiamo visto, ma sembra stia in piedi per scommessa )
─ Ma cu’ cávulu u scegghjiu ‘stu scatorciu pe’ ‘na finali i Coppa d’i Campioni? ─ (Ma chi cavolo ha scelto un simile scatorcio per una finale di Coppa dei Campioni?)
─ Veramenti ndi meravigghjamma puru nui ─ (Veramente ce lo siamo chiesto anche noi )
─ Possíbili ca non trovaru n’attru megghju i chistu ‘nta tutta l’Europa? Speriamo nommu u succedi nenti i bruttu …. ─ (Possibile che non ne abbiano trovato un altro migliore in Europa? Speriamo non succeda niente di brutto…)
Paventai io.
─ No, no! Supa a chistu potiti stari sicuri ca a Polizia da ccà ‘on esti comu a chija italiana: ccà cu’ sgarra, paga! ─ (No, no! Su questo potete stare sicuri che la Polizia qui non è come quella italiana: qua se uno sgarra, paga! )
Così ci tranquillizzammo alquanto.
─ Ma vui non veniti ‘a partita? ─ Chiesi. (Ma voi non venite alla partita? )
─ Certu ca venimu, ca ccà tenimu chjusu stasira e domani. Sapiti com’è: ‘on volarria ca pemmu u guadagnamu quattru sordi, ‘ndarrívano vinti ‘mbiachi e ndi scáscianu u locali. Però eu vaju versu i cincu e menza pemm’u mi vindu i biglietti ─ (Certo che veniamo, ché teniamo chiuso stasera e domani. Sapete com’è: non vorrei che per guadagnare quattro soldi mi piombassero qui una ventina di ubriachi e mi mettessero a soqquadro tutto il locale. Io vado verso le cinque e mezza per vendere i biglietti )
─ A quantu i vindi? ─ (A quanto li vendi?) Chiese Nino
─ Dipendi di l’ura: cchju passa u tempu e cchju nchjana u prezzu ─ (dall’ora: più passa il tempo e più sale il prezzo).
─ Allura è megghju u ndi movimu ─ (Allora è meglio che ci muoviamo) E ci alzammo, pa-gammo meno del dovuto, raccogliemmo i nostri borsoni, salutammo Gino e ci dirigemmo all’Heysel. Giungemmo verso le cinque.
Marcello fece il giro delle biglietterie, evidentemente conosceva qualcuno, per sapere quanti biglietti restavano ancora in vendita.
─ Sulu ottucentu. E poi attaccamu nui e d’i ‘Ngrisi ‘nci facimu barva e capiji. A propósitu, ‘nto settori Z éranu previsti ottomila biglietti, ma nda vindiru dudicimila. Accussì stati cchju cardi ─ (Solo ottocento. E poi attacchiamo noi e agli inglesi ci facciamo barba e capelli. A proposito, nel settore Z erano previsti ottomila biglietti, ma ne hanno venduto dodicimila. Così state più caldi )
Ancora le porte d’ingresso (porticeji i pagghjaru) come le definì Stefano, erano chiuse.
Rimanemmo ancora insieme una mezz’oretta, poi ci scambiammo indirizzo e numero di telefono e ci separammo, così appena aprirono, fummo tra i primi.
Entrammo in un corridoio stretto dove a malapena si poteva procedere in due. Qui la polizia ci fermò e ci sottopose a una minuziosa perquisizione: dovemmo aprire le borse, esibire i documenti, presentare i biglietti che furono guardati, controllati e scrutati da almeno quattro persone, svuotammo finanche le tasche e finalmente fummo dentro.
Il corridoio si apriva all’aria in alti e stretti cunei che terminavano quasi a ridosso del terreno di gioco. Ancora c’era pochissimo pubblico e noi risalimmo e ci sistemammo nella curva, all’ombra del muro di cinta. Ci guardammo attorno. Il settore era stato diviso in due da una rete posticcia: le gradinate erano state costruite in mattoni pieni, anticamente ricoperti da due dita di cemento, che però, col tempo si era invecchiato, sgretolato e lasciava lugubremente vedere i mattoni.
Nell’altro settore, al di là della rete, notammo un’ampia breccia nel muro, proprio a ridosso del cantiere dismesso. A guardia di questa era stato messo un poliziotto in piedi. Guardammo l’altra curva, il settore N, lontanissimo, dove sarebbero arrivati gli amici della sezione: Vittorio Grollino, Arturo Arena, Pino Badolato e gli altri. Chissà se erano arrivati?
Alcuni giovani stavano trafficando per sistemare uno striscione sulla rete divisoria, dalla parte nostra. Finalmente leggemmo: DOVE VA LA JUVE C’E’ PINEROLO. Evidentemente speravano in qualche zummata televisiva.
Il sole stava man mano calando e cominciarono ad arrivare i primi Inglesi e a prendere posizione al di là del divisorio nel settore adiacente. Non vedemmo gente strana ma soltanto ragazzi, ragazze e anche intere famigliole.
Verso le sette lo Stadio era già quasi pieno e la gente affluiva sempre più numerosa dagli stretti cunicoli d’ingresso.
Mezz’ora dopo notammo, nel settore vicino, numerosi gruppi di tifosi con tatuaggi, teste rasate e immancabili casse di birra in spalla. Molti penetravano indisturbati attraverso la breccia. Avevano anche sistemato una passerella con tavoloni, per maggior comodità.
Del poliziotto di guardia nessuna traccia.
Guardavamo preoccupati una lenta ma inesorabile manovra di avvicinamento verso la rete. Le famigliole e i ragazzi erano costretti a spostarsi verso l’altra estremità della curva, finchè non vedemmo al di là della rete che giubotti neri e smanicati, teste rasate e torsi nudi fittamente tatuati.
Mancava ancora mezz’ora all’inizio della partita quando alcuni di loro si misero a tagliare i legacci dello striscione di Pinerolo, che si afflosciò a terra vicino alla rete.
I ragazzi si avvicinarono per recuperarlo, ma gli Inglesi, sghignazzando, tirarono fuori le pistole lanciarazzo e cominciarono a sparare per colpirli, prima su di loro, poi alzarono il tiro sulla folla.
I ragazzi di Pinerolo ripiegarono terrorizzati, qualcuno colpito
alle spalle e con la camicia in fiamme. Noi tutti ci alzammo in piedi e ci spostammo caoticamente verso il muro, cercando di interporre il maggior spazio possibile.
Questo terrore fece scattare in loro, ormai ottenebrati dall’alcool e forse dalle droghe, l’istinto predatorio. Intuirono che non eravamo Ultras e si gettarono in forza a svellere l’esile rete divisoria che venne staccata di netto, offrendogli anche i terribili, puntuti paletti in ferro che usarono come giavellotti.
Ora il terrore divenne panico incontrollato. Dato che in alto non c’erano vie d’uscita, la folla tentò la salvezza verso il campo. Molti caddero in questa fuga scomposta e disperata e furono calpestati a morte. Gli stretti cunicoli d’entrata erano intasati dagli ignari che in massa stavano entrando.
Quelli che arrivarono sotto la rete del campo si dettero a gridare aiuto e a cercare di sbloccarla e svellere il cancello d’ingresso, ma la rete sì che era stata messa bene, con doppi
tubi e un muretto ad altezza d’uomo. La Polizia a cavallo dentro il terreno di gioco, pensando forse a un gratuito tentativo d’invasione, si dispose in formazione e si diede a dar manganellate furibonde sulle mani dei malcapitati che cercarono di tornare indietro in massa.
Allora avvenne quello che poi fu chiamato “effetto dentifricio”: dall’alto premeva la massa che cercava con ogni mezzo di sfuggire alla furia degli hooligans, dal basso arrivavano quelli che venivano picchiati dalla Polizia, insieme ad altri che entravano dai cunei e noi al centro ci sentimmo sbalzare in aria in una grande onda umana la cui cima debordò oltre la rete di protezione del Campo.
Il centro dell’onda umana cadde pesantemente sulle gradinate in basso, schiacciando col proprio peso i malcapitati delle prime file.
Io, quando mi sentii lanciato verso l’alto e stavo perdendo contatto col terreno, annaspai disperatamente intorno con le mani alla ricerca di qualsiasi appiglio.
Trovai con la destra la cinta d’un pantalone e mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Il proprietario, terrorizzato come o forse più di me, scalciava e tirava pugni alla cieca sulle mani, sulle braccia, sulla testa …
Comunque volammo e ci staccammo, ma ormai eravamo sulla coda dell’onda. Precipitai di peso per sette o otto gradini, atterrai su altri corpi e molti mi caddero addosso ma rotolarono in basso.
Mi ritrovai a faccia in aria, la gamba e il braccio destro bloccati da cadaveri, la testa e il corpo che degradavano sui gradini in basso, la gamba sinistra in aria, scalzo e con un solo braccio disponibile.
Respiravo a fatica, avevo perso gli occhiali e le scarpe ed ero costretto ad assistere impotente alla carneficina che si stava consumando in alto. Gli spettatori normali inglesi si erano aggruppati all’estremità del loro settore di curva. I nostri, come pecore impazzite, urlanti e sbranate dai lupi, cercavano una via di salvezza che non c’era e premevano disperati contro il muro di cinta.
Chi cadeva sui gradini o scivolava o non resisteva, veniva calpestato e schiacciato dalla folla terrorizzata.
Quelli agivano con la freddezza di un plotone di esecuzione.
Guidati dall’alto dai loro caporali, si erano divisi in squadre perfettamente organizzate: alcuni svellevano facilmente i mattoni delle gradinate, li spezzavano a mezzo e ne facevano piramidi. Gli assassini arrivavano con calma esasperante, bevendo birra, si armavano e poi avanzavano a balzi in sette o otto nello spazio mediano, prendevano comodamente la mira e lanciavano con forza mattoni, bottiglie, ferri acuminati contro teste, spalle e braccia per colpire, per uccidere.
Alcuni inseguivano l’ultima frangia di fuggiaschi con coltelli e bottiglie sbrecciate e li dilaniavano ridendo e sghignazzando.
Il sangue scorreva dappertutto lungo le gradinate.
Ad un tratto vidi un’ombra oscurare l’ultima luce e mi cadde addosso un ragazzino di dieci, undici anni, con la maglia bianconera e la testa spaccata in due, mi venne proprio faccia contro faccia e mi morì addosso, inondandomi di sangue e materia cerebrale.
Pazzo di terrore, di raccapriccio, di orrore e di voglia di salvezza, me ne liberai col braccio buono, poi mi detti a muovermi come un ossesso per liberare l’altro braccio inchiodato da un morto con la sciarpa sociale ancora annodata. Riuscii a furia di torsioni disperate a farlo rotolare giù in basso. Da sotto il cadavere rimosso, vidi brancolare debolmente una mano di giovane donna. L’afferrai e la strinsi, impotente ad aiutare
lei e me. Sentivo la vita abbandonare quella ignota ragazza e lacrime di rabbia e di frustrazione mi rigarono il viso imbrattato di sangue, finchè non si mosse più. Mi detti a divincolarmi con più forza, quando udii una voce di paradiso che gridava attraverso il megafono:
─ Calmi! E’ finita! E’ finita! ─
Guardai in su e vidi due file di poliziotti, perfettamente equipaggiati in tenuta antisommossa, che sostituivano la rete caduta e si interponevano in doppia fila tra i due settori, tra le vittime e gli assassini.
Questi, quieti come agnellini, angelici e impuniti, si erano seduti sulle gradinate e si accingevano, protetti e sicuri, a godersi la partita.
Dall’altra parte vidi luce e spazio attraverso la miopia che mi annebbiava la vista. Mi divincolai e mi liberai del tutto.
Avanzai prima a carponi e poi barcollante su un lago di sangue e tra mille ingombri di feriti, morti, sacchi, bandiere raggiunsi la luce e capii che era una breccia nel muro. Ci arrivai e stavo per cadere di sotto quando un poliziotto mi sostenne, mi prese in braccio e mi portò giù. Scattavano frenetici i flash dei cronisti e fu così che la mia foto in braccio al poliziotto, campeggiò il giorno dopo su tutti i giornali del mondo, a simbolo e ricordo della tragedia insensata e impensabile di quel 29 maggio.
Svenni per un po’, così mi risparmiai la vista delle macerie con morti accatastati a lato, schiacciati nella caduta del muro, crollato addosso a quelli che ancora tentavano di entrare.
Mi svegliai nell’ambulanza. Grida inenarrabili di dolore provenivano dal lettino accanto. Mi girai e vidi una donna con uno di quei giavellotti confitto nel petto. La poverina cercava con tutte le proprie forze di svellerlo, ma gli infermieri glielo impedivano: sarebbe morta all’istante di emorragia.
Sentivo avanti e dietro di me l’urlìo ossessivo delle ambulanze che andavano e venivano frenetiche. Sfrecciavamo per le vie della città che si stava già illuminando. Giungemmo a un Pronto Soccorso.
Immediatamente alcuni barellieri, pronti all’arrivo, ci sistemarono nelle portantine e ci internarono.
Sentii l’ambulanza, appena vuota, ripartire sgommando. Fui visitato da un dottorino ma, a cenni, gli feci capire che il sangue di cui ero coperto non era mio. Volevano che firmassi il registro di ricovero, ma rifiutai.
Avevo ben altro da fare. Che ne era stato di Stefano e Nino Caridi? Eravamo fianco a fianco e un attimo dopo ci eravamo persi. Dovevo trovarli. Ero scalzo e una buona donna di infermiera mi dette delle buste di plastica e del cerotto, così me le applicai ai piedi.
Chiesi all’accettazione notizie sui due amici: controllarono il registro e sbatterono la testa in segno di diniego. Mi appostai all’entrata e sorvegliavo l’arrivo delle ambulanze. Ne arrivò una, la sentii urlare già da lontano. Ne scesero un uomo con la camicia tutta insanguinata che si teneva la tempia e un altro ferito su una barella con un ventre gonfio, spropositato. Lo aprirono lì, nel corridoio e ci schiaffeggiò un fetore orripilante di feci, urine e sangue che sprizzarono dappertutto imbrattando gli infermieri.
Io e l’uomo in piedi corremmo fuori e rovesciammo l’anima.
─ Bedda matri ─ mi disse l’altro, appena ci fummo ripresi ─ allura a mia mi jiu bona daveru!? ─ (Bella madre, allora a me è andata davvero bene ) E si tolse la mano dalla testa, aprì e mi mostrò il padiglione auricolare tranciato di netto da una coltellata. Lo ricoverarono e rimasi solo. Per due ore scrutai i feriti che man mano arrivavano: dovevo curvarmi sui visi per cercare di conoscerne le fattezze senza l’aiuto degli occhiali.
Verso mezzanotte arrivò quella che ritenni l’ultima ambulanza.
Dentro c’era Stefano con una flebo al braccio. Lo abbracciai forte, piangendo e gli chiesi di Nino: non ne sapeva niente.
Accettò il ricovero e ci lasciarono in uno spazio delimitato da un paravento, il meglio che erano riusciti a trovare in quella bolgia confusa e paradossale.
Mi raccontò la sua vicenda. Anch’egli venne sbalzato su dall’onda umana e si trovò ad atterrare dentro il terreno di gioco, sopra altri che si erano infissi o schiacciati contro la rete e i terribili tubi di sostegno (sapemmo dopo che ben sette morirono in questo modo).
Qui gli erano piovuti addosso almeno venti o trenta corpi, dall’altezza di nove o dieci metri.
Ne fu ‘mbunnato (compresso) al punto che lo credettero morto e lo accatastarono tra i cadaveri (e fu proprio nel gruppo dei morti che le telecamere impietose lo ripresero in diretta e fu visto a Roccella. Immaginarsi cosa successe alla Stazione …).
Fu un poliziotto che, sentitolo ansimare, e gli calcò ripetutamente il petto con la pianta dello stivale.
E grazie a questo intervento di alta e qualificata chirurgia, Stefano è vivo e la può raccontare.
Terminata la flebo, volevano applicargliene un’altra ma rifiutammo, firmò l’onnipresente registro e fummo liberi.
Chiesi a gesti a un’infermiera dove potessi ripulirmi alquanto e togliermi di dosso parte di quella sporcizia, di quel puzzore che mi ottenebrava. Lo feci e almeno mi ripulii la faccia.
Per il resto dovevo essere peggio di Robinson: avevo la maglietta insanguinata, una manica pendula, buste di plastica per scarpe e strabuzzavo gli occhi per riconoscere la realtà vicina che vedevo confusa e ottenebrata, mentre pulsazioni dolorose mi stavano aumentando a squassarmi le tempie.
Andammo fuori per fare un bilancio delle risorse.
Avevamo perso i borsoni con dentro portafogli, documenti, macchine fotografiche e abiti di ricambio.
Io mi trovai, nascosti dalla preveggenza di mia madre, in una tasca segreta, un centinaio di dollari. Stefano aveva centocinquantamila lire e alquanti spiccetti.
Sulla strada si fermò una Punto targata CZ.
Ci precipitammo insieme:
─ Paisà, aiutatici! ─ (Paesani, aiutateci! )
Ma quelli dettero gas e partirono a razzo, scomparendo oltre il rettifilo.
Trovammo un infermiere che parlava italiano. Gli chiedemmo dove erano stati portati gli altri feriti e quello ci diede due indirizzi.
Ma prima dovevamo telefonare a casa per rassicurarli. Finora le linee erano state intasatissime ma adesso, alle due e cinque del mattino, forse ce l’avremmo fatta.
Risposero al secondo squillo. Un urlo lacerante e liberatorio mi rintronò dall’altro capo del filo:
─ Ninu! Ninu! E’ vivu! E’ vivu! Grazi Madonna, grazi. E Stefanu, ‘ndai notizi i Stefanu? U víttimu ‘nte morti! … ─ (Nino! Nino! E’ vivo! E’ vivo! Grazie Madonna, grazie. E Stefano, hai notizie di Stefano? L’abbiamo viso tra i morti )
─ Ma quali morti, sbarijástivu? Stefanu è ccà, cu mmia: v’u passu ─ (Ma quali morti? Siete fuori di testa? Stefano è qui con me, ve lo passo! )
Altro urlo e altro pianto liberatorio.
─ E i Ninu, i Ninu Caridi, ‘ndavístivu notizia? ─ (E di Nino, di Nino Caridi, avete notizie? )
─ No, cu iju ‘ndi perdimmi ‘nta chija confusioni, ma appena arbisci jamu m’u cercamu! ─ (No, no, con lui ci perdemmo in quella confusione, ma all’alba ci metteremo a cercarlo )
─ Disgrazia, disgrazia nostra! Mannaja lu palluni e cu’ u ‘mbentau! ─ (Disgrazia! Disgrazia nostra! Maledetto il pallone e chi l’ha inventato!)
Ci facemmo chiamare un radiotaxi e con esso girammo per i Pronto Soccorso indicatici; visitammo, chiedemmo e sbavammo, ma di Nino Caridi non trovammo traccia. Non figurava nell’elenco dei morti, almeno su quello provvisorio e questo ci rassicurò, anche se c’erano molti cadaveri ancora sconosciuti.
Ci facemmo portare all’Ambasciata, ma era chiusa e impenetrabile.
Andammo al Consolato. Tutto buio. Suonammo al campanello e nessuno rispondeva. Stavamo per rinunciare, ma l’autista scese deciso, si attaccò al campanello e non lo mollò finchè, come nelle fiabe, si accese una lucina e al balcone apparve un ragazzetto in pigiama.
Chiedemmo di suo padre, il Console. Ci disse che era dal Borgomastro e ancora non era rientrato. Comparve una signora. Non sapevano nulla della tragedia allo stadio. La informammo in poche parole, anche se le nostre condizioni erano più eloquenti di qualsiasi discorso.
Scese ad aprirci. Il tassista ci salutò e partì senza voler essere né pagato, né ringraziato.
Una volta entrati ci fecero accedere in uno stanzone che fungeva da biblioteca.
Soltanto adesso mi accorsi che la gamba destra mi seguiva rigida, con un’angolazione strana e non riuscivo a piegarla.
La moglie del Console si dette a telefonare per rintracciare il marito. Chiedemmo di poter usare il telefono, ma ci disse che era tarato soltanto per comunicazioni di servizio.
Il Console arrivò dopo circa un’ora e con lui entrarono almeno una ventina di altri poveri disgraziati come noi. Ci dettero del tè caldo e qualche biscotto. Io non mi reggevo in piedi, glielo
dissi e mi dettero dei libri per cuscino e nient’altro.
Così tutti quanti, da sfollati e alla rinfusa, ci ‘ngrugnammo (ci addossammo) per terra e ci addormentammo di colpo.
Alle cinque e mezza, appena due ore dopo, fummo svegliati da furiosi scossoni. Nella penombra riconoscemmo Nino Caridi che, per tutta la notte, era andato girovago ai vari Pronto Soccorso, all’Ambasciata Italiana, all’obitorio financo, in cerca di noi. Per sfortuna aveva visitato soltanto due dei Pronto Soccorso della città: gli era sfuggito proprio il terzo, quello in cui Stefano aveva lasciato traccia del suo ricovero.
Sapemmo la sua vicenda. Egli si era trovato sbalzato sulla cresta dell’onda umana, aveva così superata la rete ed era atterrato sul terreno di gioco addosso ad altri corpi, capriolando poi via senza un graffio. Si era dato quindi da fare insieme ad altri volontari e poi si era messo a cercarci. Ci appartammo in un angolo e rifacemmo il censimento delle nostre risorse: avevamo in tre circa duecentosettantamila lire e duecento dollari.
─ Sentite – propose Stefano ─ appena aiuci e’ dirría u tornamu ‘o Stadiu u ndi cercamu i burzi, i portafogghi, i documenti … o sunnu ja o ‘ncarcunu ‘ndeppi m’i pigghja ─ (Sentite, appena farà giorno, io direi di tornare allo stadio a cercare le borse coi portafogli e documenti… O sono lì o qualcuno li avrà raccolti )
─ Certu – risposi io – però no a pedi, si ndi movimu pigghjamu u taxi, chiju chi custa custa, ca eu cu ‘sta gamba ‘on mi fidu u caminu ─ (Certo, però se dobbiamo andare lo faremo in taxi, quel che costa costa, perché con questa gamba non riesco a camminare )
─ Ma tu telefonasti a casa? ─ (Ma tu hai telefonato a casa? ) Chiese Stefano a Nino.
─ E chi ‘ndavia u teléfunu? E si mi domandávanu i vui chi ‘ndavia u ‘nci dicu: ca non sapia s’éravu vivi o morti? ─ (E cosa dovevo telefonare? E se mi chiedevano di voi cosa avrei detto? Che non sapevo se eravate vivi o morti? )
─ Allura appena ‘ndi movimu da ccà a prima cosa esti u trovamu ‘nu teléfunu ─ (Allora appena ci saremo mossi di qua la prima cosa sarà trovare un telefono )
Così uscimmo. Sotto trovammo un bar-latteria aperto, facemmo colazione e Nino potè telefonare a casa. Sapemmo così ca Mimmu u Ccippu aveva visto Stefano caricato sull’ambulanza e Gianni U Marocchino me addosso al poliziotto. Alle sette fummo all’Heysel, penetrammo attraverso la breccia, io spintovi a forza di braccia e fummo sulla zona del disastro: sangue, mattoni, lattine e bottiglie dappertutto, vetri in frantumi, ma delle nostre borse e quelle degli altri, nessuna traccia.
Aspettammo che giungesse qualcuno.
I primi ad arrivare furono i giornalisti. Ci chiesero di metterci in posa con addosso qualche bandiera raccattata. Io e Nino rifiutammo, ma Stefano, con una sciarpa e una bandiera, si mise in posa in mezzo a quello sfasciume e fu questa la foto che campeggiò sulle prime pagine del giorno dopo in tutti i giornali.
Ci dissero che le borse e quanto di valore era stato ritrovato, si trovava presso la Gendarmeria di quartiere.
Ci andammo sempre in taxi, ma da qui ci mandarono da un’altra vicina dove negarono di aver preso niente.
Capimmo che gli avvoltoi si erano spartite le nostre cose.
Se l’erano giocate a dadi come la tunica di Cristo?
─ Ma u númeru i Marcellu v’u ricordati? ─ (− Ma il numero di Marcello, ve lo ricordate? )
Chiese Nino. Nessuno lo ricordava e l’appunto era rimasto nel mio portafoglio, dentro la borsa.
─ O Ristoranti è inutili u jamu, tantu oji ndi dissi ca era chjusu. ─ (Al ristorante è inutile andare, tanto ci ha detto che oggi avrebbero chiuso)
E accantonammo anche quest’ultima speranza d’aiuto.
Ormai qui non avevamo nulla da fare. Ci facemmo portare alla Stazione e trovammo altri scampati che vi avevano trascorsa la notte.
Sapemmo così che gli assassini erano arrivati scortati dalla Polizia, in doppia fila, li avevano messi sul treno e a quest’ora navigavano felici e impuniti sulla Manica.
Ben trentotto erano stati i morti e più di duecento i feriti. Uno di essi non uscì più dal coma e così si arrivò ai definitivi trentanove.
Alla biglietteria chiedemmo tre biglietti per Milano.
Orbene, finora a gesti ci eravamo fatti capire da tutti. Questo bigliettaio belga, però, sembrava un tontolone, con gli occhiali sul naso, la bocca aperta e il naso rosso e rubizzo, ci guardava da ebete.
E noi a mostrare le tre dita e a urlare: Milàn, Milàn, Milàn!
─ Chistu è ‘mbiacu tostu ─ (Questo è ubriaco tosto! ) Commentò Nino sconsolato e la gente premeva dietro.
Eravamo stanchi, inebetiti, delusi e quest’ultimo ostacolo ci portò a un pianto stizzito di rabbia e disperazione.
Finalmente l’ometto armeggiò con le sue macchinette e ci fece vedere, attraverso il vetro, gli agognati biglietti.
Ora però non capivamo il prezzo e avemmo la strampalata idea di mettere tutti i nostri soldi nella conca girevole, sia le lire che i dollari. Quello contò il denaro, abbassò una tendina di similpelle, si prese tutti i soldi e semplicemente scomparve.
Ci guardammo increduli, frustrati, ormai incapaci di sopportare oltre, per cui prendemmo i biglietti, salimmo sull’agognato treno e partimmo dal civilissimo Belgio, il cuore della nuova Europa.
Arrivammo a Milano e dovevo essere sorretto dai due: il ginocchio si era gonfiato e trascinavo la gamba ormai rigida e insensibile.
Quando alla Stazione Centrale ci videro arrivare logori, barcollanti, sfiniti, io insanguinato e con le buste di plastica ai
piedi, i Milanesi ci portarono al Bar e ognuno faceva a gara per offrirci qualcosa: caffè, dolci, sigarette …
E volevano sapere, sapere, sapere dalla viva voce di noi scampati cosa era veramente successo in quella disgraziata, allucinante partita. E fu qui che ci mostrarono il giornale dove campeggiava già la foto di me in braccio al poliziotto, sul maledetto muro sbrecciato dell’Heysel.
E noi raccontammo le nostre storie parallele e sentivamo dapprima la naturale incredulità, poi il raccapriccio.
─ Si ─ ci dissero ─ i giornali ne avevano parlato e sparlato, ma i giornalisti si trovavano in tribuna stampa, lontanissimi dal luogo del disastro. Parlammo della follia inglese, dell’onda umana, della colpevole negligenza degli organizzatori e della Polizia belga, del furto dei nostri averi e poi dell’ultima beffa alla Stazione di Bruxelles.
“Milan l’è el coeur en man”, recita l’adagio noto in tutto il mondo. E neanche con noi ─ juventini ─ venne meno la generosità dei Milanesi i quali, non contenti di averci rifocillati, misero le mani ai portafoglio e qua mille, qua cinquemila, qua diecimila, ci ritrovammo con la bella sommetta di settantaseimila lire.
Salutammo gli amici e quasi in trionfo partimmo in taxi verso San Donato Milanese dove abitava mia sorella Angelina.
La prima cosa che feci fu di entrare da un ottico e comprarmi un paio di occhiali e così, man mano, attenuai l’atroce dolore che mi martellava nel cranio. E finalmente potemmo bussare da mia sorella.
Buttai gli abiti puzzolenti che mi si erano appiccicati addosso e mi beai in un interminabile bagno caldo, che mi fece rientrare in vita dopo tanto squallore. Intanto gli amici facevano la stessa cosa in altri bagni del caseggiato, messi a disposizione dai vicini. Ebbi un paio di scarpe da mio cognato, anche se di un numero più grandi.
Il giorno dopo arrivò tutto il condominio in delegazione, sventolando i giornali del mattino: su tutte le prime pagine campeggiava la foto di Stefano in bianconero, tra le rovine dell’Heysel.
Arrivò anche la telefonata di Marcello che aveva chiamato a Roccella, preoccupatissimo, sapendoci proprio nell’occhio del ciclone.
Non aveva saputo niente di me che non figuravo in alcun elenco, avendo rifiutato il ricovero, né di Nino Caridi, ma aveva rintracciato il passaggio di Stefano dal Pronto Soccorso.
Lo tranquillizzammo. La sera Nino e Stefano rientrarono a Roccella in aereo e io fui condotto al Centro Ortopedico dove mi venne diagnosticata la rottura dei legamenti crociati e del menisco. Si meravigliarono non poco di come io fossi riuscito a camminare in quelle condizioni, e ancor di più sgranarono gli occhi quando affermai di non aver provato alcun dolore, se non dal giorno dopo.
Avrebbero voluto operarmi d’urgenza, ma io ero troppo ansioso di tornare a casa e rifiutai.
Il giorno dopo partii da Linate e in poche ore fui a Lamezia dove vennero a prendermi e arrivai a Roccella in serata.
Non vi dico l’accoglienza, le visite, il trionfo dell’eroe redivivo, le storie incrociate con gli altri juventini del settore N.
Arturo Arena, Vittorio Grollino e Pino Badolato non si erano accorti di nulla di quanto era successo da noi. Avevano visto la Polizia caricare “gli scalmanati” che tentavano un’invasione del Campo prima ancora che la partita fosse iniziata e avevano mandato anche gli accidenti a quei cretini, sciocchi e malnati che, col loro atteggiamento, rischiavano la sospensione.
Avevano sentito le raccomandazioni alla calma dello speaker, gli appelli dei Capitani delle due squadre, ma soltanto alla Stazione avevano saputo di morti e feriti. Avevano trascorso la notte nella sala d’aspetto, insieme ad altri tifosi inglesi, aggruppati in un angolo e timorosi di probabili rappresaglie.
Dopo qualche giorno apprendemmo dalla Gazzetta del Sud che tra i morti c’era anche un tifoso di Grotteria e la data dei funerali.
Facemmo una colletta e comprammo una corona e alle esequie presenziò una nostra nutrita delegazione con le bandiere basse e abbrunate.
Ci andarono con la macchina di Pino Badolato, il nostro Presidente, Arturo Arena, Vittorio Grollino, Giò Ursino e Stefano. Io non potei perché avevo già la gamba ingessata.
Andarono anche altre delegazioni dai paesi vicini e si vide anche qualche timida bandiera di Milanisti e Interisti che vollero così unirsi al nostro dolore.
Ma dopo una settimana: il botto finale.
Era arrivato ai Carabinieri di Grotteria un telegramma: a Bruxelles avevano sbagliato. Quello sotterrato a Grotteria era invece un morto di Udine, “pregasi restituire salma at facilitare scambio”: Pazzia pura!
Dopo due mesi sia a me che a Stefano arrivò la parcella dell’Ospedale: quattrocentomilalire ciascuno.
Orbene, di Stefano avevano indirizzo e tutto, ma me, come mi avevano trovato? Almeno in questo le autorità belghe furono più che funzionali.
Intanto, dopo qualche giorno dall’arrivo, contattai il prof. Martino, Ortopedico della squadra di calcio di Catanzaro, che operava anche a Locri. Mi misi sotto la sua guida e dopo diversi interventi la gamba è tornata come prima.
Per diversi anni soffersi di agorafobia: non riuscivo ad affrontare luoghi anche parzialmente affollati: andavo in panico con attacchi d’asma e sudori.
Soltanto dopo quattro anni, quando la Reggina ascese in serie A, spintovi dagli amici, mi riavvicinai al calcio, ma con abbonamento in Tribuna Vip.
Dopo qualche anno venne Marcello in vacanza a Condofuri.
Ci rivedemmo con enorme piacere.
Eravamo seduti all’Ontario di Gioiosa con davanti a ognuno una capricciosa maxi, grande quanto una ruota di carro.
Lasciai le posate, puntai i gomiti sul tavolo e quando ebbi l’attenzione di tutti, recitai serio, richiamando quanto detto da lui a Bruxelles:
─ No, no, supa a chistu potiti stari sicuri ca ccà a Polizia non esti comu a chija italiana: ccà cu’ sgarra, paga! ─ (No, no, su questo potete stare certi che qua la Polizia non è come quella italiana: qua chi sbaglia, paga! )
Stefano per poco non si strozzò col boccone di pizza, Nino si gettò indietro di peso rischiando di capriolare all’indietro, Marcello dapprima restò perplesso, ma quando si accorse che in noi non c’era malizia, si mise a ridere di cuore anche lui.
─ A propósitu ─ gli chiesi ─ Ma ‘ncarcunu pagau pe’ tutti chiji morti? ─ (A proposito. Ma qualcuno ha pagato per questi morti? )
─ Sulu unu ─ rispose tentennante Marcello ─ ‘nu clienti meu, ‘nu poliziottu patri i famigghja. L’avenu dassatu sulu a guardia i ‘nu bucu e pe’ pocu non l’avenu ammazzatu i botti. Abbandono del posto di lavoro! Ora fa la guardia giurata davanti a ‘na Banca ─ (Solo uno, un mio cliente, un poliziotto padre di famiglia. L’avevano lasciato solo a guardia di un buco e per poco non l’avevano ammazzato di botte. Abbandono del posto di lavoro! Ora fa la guardia giurata davanti a una banca. )
A distanza di anni da tanta tragedia, una domanda mi martella ancora la mente, semplice e terribile nella sua essenzialità:
PERCHE’?!