Mi alzai presto quella mattina del 1947.
Ero ansioso di provare la mia paja ‘nchjumbata (grossa nocciola con il piombo dentro).
Avevamo comprato insieme io e Rino, otto picciolate di nocciole, j’a Peppi d’u Spacciu (da Peppe allo Spaccio). Le avevamo controllate una per una, nel timore che ci fosse qualcuna santunicoleju (nocciole vuote di forma allungata), vuota.
Una picciolata era composta da quattro nocciole: tre affiancate a terra di base e una di sopra a piramide.
Si giocava così: ognuno di noi esponeva a terra, a un palmo dagli altri, la propria piramide di nocciole, poi ci gettavamo il tocco, cioè la conta.
Ci si metteva in cerchio, si toccava uno qualsiasi di noi: ─ Veni Francu, veni ‘Ntoni, veni Peppi … ─ (Viene Franco, viene ‘Ntoni, viene Peppi … ) Tanto per sapere da dove iniziare a contare, poi tutti insieme lanciavamo nel cerchio il braccio a pugno, aprendo contemporaneamente le dita, da zero a cinque.
Fatta la somma delle dita, si cominciava a contare dal designato in senso orario e si aveva così la sequenza dei tiratori.
Era Manu, il primo e Caca, l’ultimo. Il Caca doveva “rimettere”, cioè aggiungere di suo ancora un secondo castelletto.
Compiuta l’operazione, il Caca tracciava una riga a una certa distanza e comandava la modalità del tiro.
Prima tirava il Manu con la sua paja (nocciola grossa) e aveva ancora tutti i castelli a disposizione, poi il secondo, il terzo e gli altri fino al Caca, se era ancora rimasto qualcosa per lui.
Quindi si ricominciava con un’altra conta.
Si giocava anche a Cimbulò.
Si appoggiava al muro, obliqua, una tavola o una ciaramida, (tegola) poi ognuno tirava la sua nocciola senza spingere (c’erano mille ispettori, mille “moviole”, alcuni anche a terra per controllare) chi con la propria colpiva una qualsiasi delle nocciole, se le pappava tutte.
Io e Rino impiegammo una giornata a piombare le nostre paje.
Per avere il piombo andammo nei binari dove sostavano i treni merci e li spiombammo, eludendo la sorveglianza di Diana e compagno, i terribili militi della Polizia Ferroviaria.
Fatto questo, scelta tra le nostre nocciole la più grossa e la più tonda, con un chiodo cominciammo a bucarle di sotto e poi a polverizzare il frutto interno, fino a vuotarle interamente.
Corremmo quindi nell’orto di mia nonna, accendemmo il fuoco e vi mettemmo sopra il pentolino d’acqua ben asciugato delle galline, col piombo.
Quando questo si liquefece, aiutandoci con un imbuto di carta stagnola e tenendo uno la nocciola con una pinza, e l’altro versando il piombo, le riempimmo e poi mimetizzammo il buco con la polvere delle nocciole che avevamo conservata.
Era comunque un barare al gioco perché le paje, così truccate, non erano ammesse e si rischiava di prenderle di brutto.
Noi comunque, impavidi, ci spostammo sullo slargo di fronte al Dormitorio dei Ferrovieri, oggi piazza Primavera.
C’erano diversi crocchi e noi ci guardammo bene attorno e quindi scegliemmo il meno feroce: Cesarino, Peppi Chitichirri, Ceciu u Tarì e Mariu ‘i Tobia. Unitici a loro, dapprima usammo le nostre paje di riserva, regolamentari, quindi tirammo fuori proditoriamente le nostre ‘nchjumbate (piombate) e cominciammo a fare sfracelli degli ingenui castelletti che, colpiti violentmente, schizzavano attorno le nocciole con forza, causando un effetto domino devastante.
Fatto così pizzòlo, (fortuna) smettemmo per non insospettirli e rientrammo verso la Stazione.
Trovammo un bel gruppetto già all’opera nel vicoletto di don Nicoddemi, dietro l’edicola, sotto casa mia. C’era Renato Muscatello, Mariu U Súrici, Angelino Capitanio, Nicolino ‘i Maraciciglia e Peppi ‘i Cenzu: giocavano alla Singa con le monete metalliche d’anteguerra, ormai fuori corso e senza valore.
Con l’avvento degli Alleati, che avevano sostituito la moneta del regime con l’AM lire (Amministrazione Militare), anche per inseguire la paurosa inflazione sopravvenuta a una guerra malamente persa, rimase in circolazione una enorme quantità di monete metalliche fuori uso, del vecchio sistema: la lira e la mezza lira in nichel, il taccone e altre minori in ottone. Con queste giocavamo, comprandole e rivendendole secondo un valore convenzionale stabilito e accettato.
─ Ténimi u postu! ─ (Tienimi il posto!) Gridai a Rocco Arteritano che stava sopraggiungendo insieme a Mimmu U Landaru.
Salii a casa a fujuni, posai il sacchetto delle nocciole e afferrai la scatola di latta dei biscotti savoiardi dove tenevo il mio tesoro monetario.
Quando tornai la partita era già cominciata e Peppi ‘i Cenzu che era il Caca, aveva ordinato il tiro a “rumbuluni” (ruotando).
Questo tiro si effettuava afferrando la moneta con le prime tre dita e imprimendole un movimento rotatorio. C’era poi il tiro a “sutt’anca”, cioè far passare la moneta sotto la gamba destra; all’”anca piscia”, sotto la gamba sinistra; “avant’arretu” girandosi di spalle e tirando sopra la testa, curvandosi all’indietro il più possibile verso la singa; a “veneziana” cioè accovacciandosi con una gamba tesa e lanciando sotto di questa; “giustu”, nella posizione dello spadaccino; a “tiraricchji”,
afferrandosi un’orecchia e lanciando dopo aver passato il braccio all’interno; o anche a “battimuru” se l’ubicazione della singa lo permetteva.
Finalmente potemmo entrare in gioco io e Rino.
Rocco e U Landaru si erano attardati nell’edicola. Ci sistemammo a cerchio e facemmo la conta: Angelino risultò Manu, poi Rino, terzo io e nell’ordine Peppi ‘i Cenzu, Renato, U Súrici e Nicolino , Caca.
Angelino raccolse le monete attorno alla singa, si fece rimettere un’altra dal Caca e le lanciò alte, facendole ruotare:
− Testa! – Urlò Rino.
Controllammo a terra e gioimmo: soltanto due per il Manu e ben sei per noialtri. Rino lanciò per me:
− Cruci! – gridai speranzoso.
A terra, tre testa e tre croci.
Raccolsi le mie tre e rilanciai:
− Cruci! – mi rintronò Peppi ‘i Cenzu.
Mi andò bene, perché raccolsi due per me e soltanto una rimase a Peppe. La prese, la soppesò, ci soffiò sopra . . . via!
− Testa! – Urlò Renato, “ma tosto tornò in pianto” perché l’unica moneta se la intascò Peppi e gli altri restarono a bocca asciutta. Giocai fin verso le undici, poi mamma mi gridò dal balcone:
─ Francucciu! Adduvi si’? ─
─ Sugnu ccá, staju jocandu! ─
─ ‘Ndai u vai po’ pani ca a chist’ura u spurnaru. Tè ca ti jettu i sordi! ─ (Francuccio, dove sei? − Sono qua, sto giocando! − Devi andare per il pane che a quest’ora è stato sfornato. Tò che ti lancio i soldi! )
Io fui ben felice di lasciare il gioco perché ero in vincita.
─ Vincisti? ─ (Hai vinto? ) Mi chiese Rino
─ No, sugnu ch’i mei ─ (− No, sono rimasto col mio ) Minimizzai io, mentendo per paura d’u pitusu, cioè del malocchio.
Intanto mi ero spostato sotto il balcone e mamma mi lanciò, sporgendosi, una moneta da 20 lire di quelle brutte, quadrate, d’occupazione. Scese sfarfallando per aria, mi scivolò tra le dita, la rincorsi fino all’edicola e la bloccai col piede, raccogliendola.
─ Vi’ nommu a perdi! ─ (Attento a non perderla )
Mi raccomandò la mamma e mi lanciò anche la borsa di vimini della spesa:
─ Senti ─ aggiunse ─ poi passa j’o Napulitanu e accatta menzu chilu i regginella, e sta’ attentu nommu t’a duna camulijata comu all’attru jornu! ─ (Ascolta, poi passa dal Napoletano e compra mezzo chilo di regginella, e attento che non sia bacata come l’altra volta!)
Io infilai la moneta nella tasca dei pantaloni, non quella del fazzoletto e tagliai dalla falegnameria Cianflone, risalii il vico Fumata e fui al forno.
Aspettai il mio turno e Gigi mi dette il pane bello caldo.
Fui dal Napoletano e comprai la regginella.
Era questa una pasta lunga col buco: una via di mezzo tra i bucatini e ‘i maccarruni i zzita’.
Guardai la carta azzurra con su effigiato il Golfo di Napoli con l’immancabile pino e il Vesuvio fumante, lessi la scritta: “Pasta di Gragnano, Vera Napoli” e pagai, ricevetti il resto, misi il tutto nella borsa insieme al pane e alla scatola dei savojardi e scesi lungo il Misóstraco verso casa.
Nel secondo vicolo si erano aggruppate le ragazzine a giocare alla fosseja. Era questo il gioco di nocciole preferito dalle femminucce: si scavava una fossetta nel terreno, si tracciava alla giusta distanza la linea di tiro e poi facevano la conta come noi.
La Caca doveva mettere una picciolata in buca per iniziare il gioco.
Vinceva chi in un sol colpo riusciva a mandare tutte le quattro nocciole insieme dentro la fosseja.
Mi fermai a guardare: avevano tirato quasi tutte e disseminate per terra, c’erano almeno dieci picciolate.
Attorno ansiose, Olga d‘a Catazza, Antonietta Sarroino, Lidia ‘a Trácina, Pina ‘a Scórfina, Rosa d’i Timpi, Anita Catello, Gina d’u Ristoranti d’a Stazioni e Stella a Súricia.
Doveva tirare appunto questa, e dopo di lei, ultima, Gina.
Stella, a gambe larghe, bella ‘mpedicata pe’ terra, sguazzava in mano la sua picciolata e vi soffiava sopra, poi, rivolta al cielo, concentrata come il pomodoro Cirio, implorò:
Madonna, Madonneja,
quattru coccia ‘nta fosseja.
Giuseppi, Sant’Anna e Maria,
quattru coccia ‘nta fossejuzza mia!(Madonna, Madonnina,
quattro chicchi nella mia fossella.
Giuseppe, Sant’Anna e Maria
Quattro chicchi nella fossella mia.)
Ma Gina, abbrancata ad Olga, quasi volessero raddoppiare le forze (probabilmente facevano ‘a, parti) implorante di rimando:
Madonna, Madonneja mia,
non tirati cu’ ija ma tirati cu mmia! (Madonna, Madonnella mia, – non parteggiate con lei – ma parteggiate con mia (me))
Stella non perse la concentrazione, tirò e saltò su in aria a pugni chiusi con un urlo di vittoria: centro!
Si girò verso Gina, inarcò la natica, vi battè sopra col dorso e sibilò:
Écchiti ccá, arraggia! (Eccoti qua, schiatta!)
Ma proprio in quel momento sbucò dal Misóstraco Franci U Biasi con suo fratello Agostino: ─ SACCU!
Urlò precipitandosi a raccogliere tutte le nocciole disseminate e scomparendo fulminei dietro la casa della Riggitana.
Un gelo di morte cadde su tutto il gruppo. Anch’io guardavo impotente e trasecolato:
─ Dincillu di frati toi, accussì nci scúgnanu i mussa! ─ (Dillo ai tuoi fratelli, così gli spaccano la faccia! )
Esplose la Trácina inviperita.
─ Ma iju gridau SACCU, u sentimma tutti … ─ (Ma lui ha gridato: SACCO, l’abbiamo sentito tutti … )
Questa del sacco era una legge non scritta, un’usanza poco in voga, ma mai abrogata. Toto Zito il giorno prima nell’edicola mi aveva detto che Nuccio Daniero aveva fatto Sacco ‘nte Barracchi. (alle Baracche)
Poi Cola Testavascia lo fece a Zirgone e Gino Chiefari ‘nte Palazzini.
Fatto sta che da quel giorno si giocò cu vitru e gudeja (col vetro alle budella). Bastava che in lontananza si avvistasse qualcuno che si avvicinava, andando magari per i fatti suoi, che qualche giocatore, o perchè perdente, o perché sotto la psicosi del Sacco, si precipitava ad afferrare il suo gridando: ─ Eu mi pigghju i mei! ─ (Io mi prendo il mio!)
Al che tutti si precipitavano a fare altrettanto, sia le nocciole, sia le monetine.
Così passarono le feste e si tornò a scuola.
L’anno successivo non si giocò più a nocciole, almeno non da noi alla Marina. Ormai i commercianti le vendevano a chilo e quindi si erano inflazionate. Alla Singa durò qualche anno ancora, ma presto si passò a giochi con denaro vero: sette e mezzo, mazzetto e per i più sofisticati la Stoppa. I tempi stavano ormai decisamente volgendo verso un nuovo, crescente benessere.