I ragazzi di Piazza Stazione : ‘NC’ERA ‘NA VOTA NATALI C’ERA UNA VOLTA NATALE

Mi alzai presto quella mattina del 1947.

Ero ansioso di provare la mia paja ‘nchjumbata (grossa nocciola con il piombo dentro).

Avevamo comprato insieme io e Rino, otto picciolate di nocciole, j’a Peppi d’u Spacciu (da Peppe allo Spaccio). Le avevamo controllate una per una, nel timore che ci fosse qualcuna santunicoleju (nocciole vuote di forma allungata), vuota.

Una picciolata era composta da quattro nocciole: tre affiancate a terra di base e una di sopra a piramide.

Si giocava così: ognuno di noi esponeva a terra, a un palmo dagli altri, la propria piramide di nocciole, poi ci gettavamo il tocco, cioè la conta.

Ci si metteva in cerchio, si toccava uno qualsiasi di noi: ─ Veni Francu, veni ‘Ntoni, veni Peppi … ─ (Viene Franco, viene ‘Ntoni, viene Peppi … ) Tanto per sapere da dove iniziare a contare, poi tutti insieme lanciavamo nel cerchio il braccio a pugno, aprendo contemporaneamente le dita, da zero a cinque.

Fatta la somma delle dita, si cominciava a contare dal designato in senso orario e si aveva così la sequenza dei tiratori.

Era Manu, il primo e Caca, l’ultimo. Il Caca doveva “rimettere”, cioè aggiungere di suo ancora un secondo castelletto.

Compiuta l’operazione, il Caca tracciava una riga a una certa distanza e comandava la modalità del tiro.

Prima tirava il Manu con la sua paja (nocciola grossa) e aveva ancora tutti i castelli a disposizione, poi il secondo, il terzo e gli altri fino al Caca, se era ancora rimasto qualcosa per lui.

Quindi si ricominciava con un’altra conta.

Si giocava anche a Cimbulò.

Si appoggiava al muro, obliqua, una tavola o una ciaramida, (tegola) poi ognuno tirava la sua nocciola senza spingere (c’erano mille ispettori, mille “moviole”, alcuni anche a terra per controllare) chi con la propria colpiva una qualsiasi delle nocciole, se le pappava tutte.

Io e Rino impiegammo una giornata a piombare le nostre paje.

Per avere il piombo andammo nei binari dove sostavano i treni merci e li spiombammo, eludendo la sorveglianza di Diana e compagno, i terribili militi della Polizia Ferroviaria.

Fatto questo, scelta tra le nostre nocciole la più grossa e la più tonda, con un chiodo cominciammo a bucarle di sotto e poi a polverizzare il frutto interno, fino a vuotarle interamente.

Corremmo quindi nell’orto di mia nonna, accendemmo il fuoco e vi mettemmo sopra il pentolino d’acqua ben asciugato delle galline, col piombo.

Quando questo si liquefece, aiutandoci con un imbuto di carta stagnola e tenendo uno la nocciola con una pinza, e l’altro versando il piombo, le riempimmo e poi mimetizzammo il buco con la polvere delle nocciole che avevamo conservata.

Era comunque un barare al gioco perché le paje, così truccate, non erano ammesse e si rischiava di prenderle di brutto.

Noi comunque, impavidi, ci spostammo sullo slargo di fronte al Dormitorio dei Ferrovieri, oggi piazza Primavera.

C’erano diversi crocchi e noi ci guardammo bene attorno e quindi scegliemmo il meno feroce: Cesarino, Peppi Chitichirri, Ceciu u Tarì e Mariu ‘i Tobia. Unitici a loro, dapprima usammo le nostre paje di riserva, regolamentari, quindi tirammo fuori proditoriamente le nostre ‘nchjumbate (piombate) e cominciammo a fare sfracelli degli ingenui castelletti che, colpiti violentmente,  schizzavano  attorno  le nocciole con forza, causando  un effetto domino devastante.

Fatto così pizzòlo, (fortuna) smettemmo per non insospettirli e rientrammo verso la Stazione.

Trovammo un bel gruppetto già all’opera nel vicoletto di don Nicoddemi, dietro l’edicola, sotto casa mia. C’era Renato Muscatello, Mariu U Súrici, Angelino Capitanio, Nicolino ‘i Maraciciglia e Peppi ‘i Cenzu: giocavano alla Singa con le monete metalliche d’anteguerra, ormai fuori corso e senza valore.

Con l’avvento degli Alleati, che avevano sostituito la moneta del regime con l’AM lire (Amministrazione Militare), anche per inseguire la paurosa inflazione sopravvenuta a una guerra malamente persa, rimase in circolazione una enorme quantità di monete metalliche fuori uso, del vecchio sistema: la lira e la mezza lira in nichel, il taccone e altre minori in ottone. Con queste giocavamo, comprandole e rivendendole secondo un valore convenzionale stabilito e accettato.

─ Ténimi u postu! ─ (Tienimi il posto!) Gridai a Rocco Arteritano che stava sopraggiungendo insieme a Mimmu U Landaru.

Salii a casa a fujuni, posai il sacchetto delle nocciole e afferrai la scatola di latta dei biscotti savoiardi dove tenevo il mio tesoro monetario.

Quando tornai la partita era già cominciata e Peppi ‘i Cenzu che era il Caca, aveva ordinato il tiro a “rumbuluni” (ruotando).

Questo tiro si effettuava afferrando la moneta con le prime tre dita e imprimendole un movimento rotatorio. C’era poi il tiro a “sutt’anca”, cioè far passare la moneta sotto la gamba destra; all’”anca piscia”, sotto la gamba sinistra; “avant’arretu” girandosi di spalle e tirando sopra la testa, curvandosi all’indietro il più possibile verso la singa; a “veneziana” cioè accovacciandosi con una gamba tesa e lanciando sotto di questa; “giustu”, nella posizione dello spadaccino; a “tiraricchji”,

afferrandosi un’orecchia e lanciando dopo aver passato il braccio all’interno; o anche a “battimuru” se l’ubicazione della singa lo permetteva.

Palazzo Ursini ‘u Pitturi

Palazzo Ursini ‘u Pitturi

Roccella anni ’40. Il Corso prima dello sventramento

Roccella anni ’40. Il Corso prima dello sventramento

Finalmente potemmo entrare in gioco io e Rino.

Rocco e U Landaru si erano attardati nell’edicola. Ci sistemammo a cerchio e facemmo la conta: Angelino risultò Manu, poi Rino, terzo io e nell’ordine Peppi ‘i Cenzu, Renato, U Súrici e Nicolino , Caca.

Angelino raccolse le monete attorno alla singa, si fece rimettere un’altra dal Caca e le lanciò alte, facendole ruotare:

− Testa! – Urlò Rino.

Controllammo a terra e gioimmo: soltanto due per il Manu e ben sei per noialtri. Rino lanciò per me:

− Cruci! – gridai speranzoso.

A terra, tre testa e tre croci.

Raccolsi le mie tre e rilanciai:

− Cruci! – mi rintronò Peppi ‘i Cenzu.

Mi andò bene, perché raccolsi due per me e soltanto una rimase a Peppe. La prese, la soppesò, ci soffiò sopra  . . . via!

− Testa! – Urlò Renato, “ma tosto tornò in pianto” perché l’unica moneta se la intascò Peppi e gli altri restarono a bocca asciutta. Giocai fin verso le undici, poi mamma mi gridò dal balcone:

─ Francucciu! Adduvi si’? ─

─ Sugnu ccá, staju jocandu! ─

─ ‘Ndai u vai po’ pani ca a chist’ura u spurnaru. Tè ca ti jettu i sordi! ─ (Francuccio, dove sei? − Sono qua, sto giocando! − Devi andare per il pane che a quest’ora è stato sfornato. Tò che ti lancio i soldi! )

Io fui ben felice di lasciare il gioco perché ero in vincita.

─ Vincisti? ─ (Hai vinto? ) Mi chiese Rino

─ No, sugnu ch’i mei ─ (− No, sono rimasto col mio ) Minimizzai io, mentendo per paura d’u pitusu, cioè del malocchio.

Intanto mi ero spostato sotto il balcone e mamma mi lanciò, sporgendosi, una moneta da 20 lire di quelle brutte, quadrate, d’occupazione. Scese sfarfallando per aria, mi scivolò tra le dita, la rincorsi fino all’edicola e la bloccai col piede, raccogliendola.

─ Vi’ nommu a perdi! ─ (Attento a non perderla )

Mi raccomandò la mamma e mi lanciò anche la borsa di vimini della spesa:

─ Senti ─ aggiunse ─ poi passa j’o Napulitanu e accatta menzu chilu i regginella, e sta’ attentu nommu t’a duna camulijata comu all’attru jornu! ─ (Ascolta, poi passa dal Napoletano e compra mezzo chilo di regginella, e attento che non sia bacata come l’altra volta!)

Io infilai la moneta nella tasca dei pantaloni, non quella del fazzoletto e tagliai dalla falegnameria Cianflone, risalii il vico Fumata e fui al forno.

Aspettai il mio turno e Gigi mi dette il pane bello caldo.

Fui dal Napoletano e comprai la regginella.

Era questa una pasta lunga col buco: una via di mezzo tra i bucatini e ‘i maccarruni i zzita’.

Guardai la carta azzurra con su effigiato il Golfo di Napoli con l’immancabile pino e il Vesuvio fumante, lessi la scritta: “Pasta di Gragnano, Vera Napoli” e pagai, ricevetti il resto, misi il tutto nella borsa insieme al pane e alla scatola dei savojardi e scesi lungo il Misóstraco verso casa.

Nel secondo vicolo si erano aggruppate le ragazzine a giocare alla fosseja. Era questo il gioco di nocciole preferito dalle femminucce: si scavava una fossetta nel terreno, si tracciava alla giusta distanza  la linea di tiro e poi facevano la conta come noi.

La Caca doveva mettere una picciolata in buca per iniziare il gioco.

Vinceva chi in un sol colpo riusciva a mandare tutte  le quattro nocciole insieme dentro la fosseja.

Mi fermai a guardare: avevano tirato quasi tutte e disseminate per terra, c’erano almeno dieci picciolate.

Attorno ansiose, Olga d‘a Catazza, Antonietta Sarroino, Lidia ‘a Trácina, Pina ‘a Scórfina, Rosa d’i Timpi, Anita Catello, Gina d’u Ristoranti d’a Stazioni e Stella a Súricia.

Doveva tirare appunto questa, e dopo di lei, ultima, Gina.

Stella, a gambe larghe, bella ‘mpedicata pe’ terra,  sguazzava in mano la sua picciolata e vi soffiava sopra, poi, rivolta al cielo, concentrata come il pomodoro Cirio, implorò:

Madonna, Madonneja,

quattru coccia ‘nta fosseja.

Giuseppi, Sant’Anna e Maria,

quattru coccia ‘nta fossejuzza mia!(Madonna, Madonnina,

quattro chicchi  nella mia fossella.

Giuseppe, Sant’Anna e Maria

Quattro chicchi nella fossella mia.)

Ma Gina, abbrancata ad Olga, quasi volessero raddoppiare le forze (probabilmente facevano ‘a, parti) implorante di rimando:

Madonna, Madonneja mia,

non tirati cu’ ija ma tirati cu mmia! (Madonna, Madonnella mia, – non parteggiate con lei – ma parteggiate con mia (me))

Stella non perse la concentrazione, tirò e saltò su in aria a pugni chiusi con un urlo di vittoria: centro!

Si girò verso Gina, inarcò la natica, vi battè sopra col dorso e sibilò:

Écchiti ccá, arraggia! (Eccoti qua, schiatta!)

Ma proprio in quel momento sbucò dal Misóstraco  Franci  U Biasi con suo fratello Agostino: ─ SACCU!

Urlò precipitandosi a raccogliere tutte le nocciole disseminate e scomparendo fulminei dietro la casa della Riggitana.

Un gelo di morte cadde su tutto il gruppo. Anch’io guardavo impotente e trasecolato:

─ Dincillu di frati toi, accussì nci scúgnanu i mussa! ─ (Dillo ai tuoi fratelli, così gli spaccano la faccia! )

Esplose la Trácina inviperita.

─ Ma iju gridau SACCU, u sentimma tutti … ─ (Ma lui ha gridato: SACCO, l’abbiamo sentito tutti … )

Questa del sacco era una legge non scritta, un’usanza poco in voga, ma mai abrogata. Toto Zito il giorno prima nell’edicola mi aveva detto che Nuccio Daniero aveva fatto Sacco ‘nte Barracchi. (alle Baracche)

Poi Cola Testavascia lo fece a Zirgone e Gino Chiefari ‘nte Palazzini.

Fatto sta che da quel giorno si giocò cu vitru e gudeja (col vetro alle budella). Bastava che in lontananza si avvistasse qualcuno che si avvicinava, andando magari per i fatti suoi, che qualche giocatore, o perchè perdente, o perché sotto la psicosi del Sacco, si precipitava ad afferrare il suo gridando: ─ Eu mi pigghju i mei! ─ (Io mi prendo il mio!)

Al che tutti si precipitavano a fare altrettanto, sia le nocciole, sia le monetine.

Così passarono le feste e si tornò a scuola.

L’anno successivo non si giocò più a nocciole, almeno non da noi alla Marina. Ormai i commercianti le vendevano a chilo e quindi si erano inflazionate. Alla Singa durò qualche anno ancora, ma presto si passò a giochi con denaro vero: sette e mezzo, mazzetto e per i più sofisticati la Stoppa. I tempi stavano ormai decisamente volgendo verso un nuovo, crescente benessere.

 

SFOLLATI – Capitolo 10

Durante la guerra la nostra casa alla stazione cominciò a diventare pericolosa: i mitragliamenti erano frequenti, mai bombardamenti pesanti però in quanto gli Alleati non vollero distruggere la linea Jonica, ritenendola importante per una eventuale prossima loro avanzata. Tenevano però sotto pressione sia le postazioni di artiglieria del Castello e della Torre, sia il Treno Armato che pattugliava la linea. Un giorno si incendiarono alcuni vagoni carichi di benzina, fermi sul binario morto a non più di venti metri da noi. Fortunatamente il vento (o San Vittorio?) spinse le fiamme  verso il mare, tuttavia la paura fu tanta che decidemmo di sfollare.

Dapprima ci spostammo nella casa avita di mio padre nella Strada Nova: aggiustammo in qualche modo i magazzini della ex falegnameria e ci piazzammo lì: la zia Stella era morta da poco. Abitavano di sopra la zia Mariarosa Cappelleri con i figli Fausta, Mimmo che era militare, Ciccio universitario, Toto, di qualche anno più grande di me, Adelia, Vittorio e Corrado mio coetaneo, Alba più piccola. In un’altra ala stava zio Ernesto con le figlie Rita, Renata e Fernanda, mia pari età; la moglie, zia Amalia.

Allora la strada era fortemente bombata e durante le piogge le due cunette laterali diventavano fiumi. Per superare dall’entrata questi dislivelli c’erano le bolate, cioè delle grandi pietre di Lavagna che poggiavano orizzontalmente sulla strada, lasciando fluire le acque di sotto. Sopra queste bolate ci sedevamo noi ragazzi a fabulare e a giocare.

Un giorno mio padre doveva andare a Condò dove avevamo un terreno olivetato, curato da un mezzadro e ci invitò, noi ragazzi, chi volesse accompagnarlo. Si sono mai visti ragazzi che rifiutino una gita in campagna? Così accettammo io, Corrado e Toto e poi le cugine più grandi Rita e Adelia.

La mattina presto partimmo. Salimmo per il Vallone alto e prendemmo per il braccio sinistro.  Poi affrontammo  la terribile salita di Caramotta e sbucammo su un breve pianoro, poi un’altra, salitella ci portò sulla Serra Gerasa e quindi svoltammo per la viottola a destra che ci avrebbe portati a destino.

Qui la vasta aia con la casa di Mico, l’acqua fresca, la comunella con Lario e Assunta, i figli del colono e poi i fichidindia.

Mio padre e il colono sparivano per vedersi gli affari loro e noi esploravamo la fattoria: le galline, l’asino, il maiale, la capra… Lario sapeva intrecciare i giunchi e ci faceva vedere, poi costruiva aratri in miniatura con una abilità portentosa e ci portava a vedere dove aveva armato le prache, cioè delle pitte di ficandianara tenute oblique da bastoncini collegati a un’esca. Quando un uccellino toccava la praca, questa scattava e lo uccideva. Guardavamo ammirati tanta sapienza e abilità. Intanto tornava mio padre, scambiava ancora qualche parola, prendevamo i panieri coi fichidindia e qualche verdura e via, di ritorno.

E così rifacemmo la viottola, arrivammo sul pianoro della Serra Gerasa e stavamo per prendere la discesa a gradoni verso Caramotta quando vedemmo di lato un sentierucolo diritto e scosceso tracciato forse dalle capre; di lato un valloncello tra le argille raccoglieva l’acqua piovana.

Qualcuno gridò:

− fessa l’urtimu!  − (Fesso l’ultimo!)

E ci lanciammo a rotta di collo giù per la scarpata. Io ero il primo, le gambe mi volavano, facevo fatica, tanta la velocità a tenere il contatto col terreno. A un tratto sento dietro di me un urlo terribile e intravedo con la coda dell’occhio una figura volare scomposta per aria e finire di schianto nel valloncello pietroso, qualche metro più in basso. Vidi o sognai mio padre con le mani nei capelli? Non potevo assolutamente frenarmi, né io né gli altri, finchè raggiungemmo  il piano e così diminuimmo gradatamente la velocità e ci fermammo. Soltanto adesso ci rendemmo conto: Adelia era volata via nella corsa e giaceva riversa, a testa in giù tra le pietre; mio padre disperato, scendeva verso di lei. Risalimmo anche noi, abbandonando i panieri ormai vuoti: Adelia giaceva scomposta, una gamba sotto di lei spuntava con un’angolazione assurda; piangeva e gridava.

Mio padre e Toto cercarono di risollevarla, le misero una giacca a mo’ di cuscino, riuscirono a spostarla e vedemmo la gamba: proprio sotto il ginocchio un osso malamente spezzato sporgeva fuori. Ci mettemmo a piangere anche noi. Mio padre ci impose la calma, poi ordinò a Toto e Rita, i più grandicelli:

− Rimanete qui con lei! Io vado a chiamare aiuto. −

Ci sedemmo lì attorno sgomenti e impotenti e Adelia chiamava la mamma, Fausta, voleva andare a casa; noi a tranquillizzarla. Finalmente tornò mio padre con alcuni uomini: portavano una scala e qualche coperta. Facemmo largo; presero l’infortunata con la massima cautela possibile e la sistemarono sulla scala, una coperta sotto e una sopra: la giacca di mio padre per cuscino. Così in mesta processione tornammo a casa.

Ricordo poi Adelia a letto con la gamba legata al soffitto e due mattoni penduli come contrappesi. Per fortuna che allora non c’erano in zona Reparti Ortopedici specializzati e quindi la gamba tornò perfettamente a posto senza alcuna conseguenza.

Di questo soggiorno da sfollati ricordo diverse peripezie: Valerio una sera si sedette sul braciere acceso e si bruciò tutto il culicello; io saltai scalzo da un muricciolo proprio sopra un culacchio di bottiglia e mi saltò mezzo tallone: mia mamma lo disinfettò con la benzina e poi me lo tenne fermo per ore finchè guarì senza antitetaniche, punti e presenze mediche.

Un pomeriggio ero sceso dalla finestra in una stanza piena di fascine per vedere i gattini e immediatamente fui sommerso da un nereggiare di pulci, che mi copersero fino al petto e mi avrebbero mangiato vivo se Toto non mi  avesse tirato fuori con destrezza buttandomi nella gebbia(Vasca per abbeverare) piena d’acqua.

E poi Valerio si sentì male. Eravamo a scuola alla primina, quando Fausta venne tutta trafelata a dirlo a mio padre. Ci mandò via subito e corse, lasciando a Fausta l’incarico di chiudere. A casa, lì a due passi, mia madre aveva già il piccolo in braccio avvolto in uno scialle. Sopra, sul balcone, zia Amalia, zia Mariarosa, Renata e Rita in ambascia. Seguii mio padre. Dovevo correre per essere alla pari delle sue lunghe falcate. Fummo al Monumento, prese per Zaddeo e scese verso il Misostrato. Al posto dell’attuale studio del dottor Leggio, sorgeva La Cattolica, una grande baracca di legno della Croce Rossa dove c’era un presidio medico permanente. Qui arrivò mio padre col fiato ai denti. Parlò al medico. Seppi in questa occasione che io non fui il primogenito: prima di me c’era stato un altro Franco Francesco, morto a un anno.

Mio padre parlava concitato con l’uomo in camice bianco; c’erano anche due donne. Io ero fermo all’entrata. Valerio fu adagiato su un lettino e il dottore preparò una siringa enorme, piena di un liquido giallastro e gliela iniettò nella pancia e poi ritornammo. Non so cosa ci fosse nella siringa, gli antibiotici non erano ancora arrivati; fatto sta che Valerio, dopo qualche giorno, cominciò a sculettare per casa e a mangiare cannola di carbone dei quali era ghiotto. Poi in ambulatorio medico, ma non gratuito, ci dovetti andare io, e per molto tempo.

Giocavamo con Corrado, quando avvistammo su una finestra a piano terra un coperchio di forno in lamiera. Ci mettemmo a fare il cavalluccio: prima tu e dopo io. Quando toccò a me, mi scomposi, cercai di mantenermi ma caddi, io sotto e la lamiera sopra. Corsi sanguinante su, a casa di Corrado: ero pieno di sangue ma pensavo che questo provenisse da una escoriazione al ginocchio, invece loro si accorsero che avevo il braccio destro quasi tranciato, all’altezza del polso.

Ciccio mi prese in braccio e mi portò dal medico Minici. Mentre mi stava pulendo la ferita, arrivò mio padre. Il medico preparava ago e filo e mi dovette ricucire: ben dieci punti ci vollero. Poi tutti i giorni, per un mese, dovetti tornare ogni pomeriggio per le medicature.

Un giorno, nel rimuovere le bende, il medico apparve preoccupato, si mise a parlottare con mio padre; sentii pronunciare sottovoce di una “probabile cancrena”. Il medico chiamò una sua nerboruta domestica e incaricò questa e mio padre di tenermi stretto. Io non vedevo niente, sentivo armeggiare il medico. D’un tratto provai un dolore, un bruciore tremendo al braccio e urlai quanto forte può urlare un bambino di cinque anni: durò qualche minuto ma a me parve interminabile. In mancanza di antibiotici, per fermare il contagio, avevano dovuto bruciare la ferita con nitrato d’argento. Comunque fu salutare e pian piano il braccio guarì. Mi rimase, a ricordo, una brutta cicatrice.

In estate ci spostammo al Bosco Catalano dove mia nonna e il mio bisnonno, U Pitturi’, avevano le case. Eravamo una folla: noi, due adulti e due ragazzini; i Cruciani con tre, poi i Gonzales con altrettanti; poi mia nonna, zio Gino e i bisnonni. Questi erano il problema: lui era novantenne e mezzo rimbambito; lei aveva 87 anni ed era valetudinaria, immobilizzata su una di quelle poltrone-mobile, con gli stipetti sotto con il càntaro atto a raccogliere gli espulsi fisiologici. I grandi, a consiglio, decisero di assoldare dei portatori.

Così una mattina partimmo: i nonni legati alle spalliere, alti sulle sedie alle quali erano stati applicati dei travi come alle portantine dei Santi, e noi tutti dietro in lunga processione.

Superammo la Croce, il Pugade e ora ci aspettava l’insidiosa salita del Purgatorio. Più che la salita preoccupava la strada incassata in alto, tra roccia e dirupo, stretta e bombata. Salirono i grandi, noi piccoli assistevamo dal basso, insieme a Gino. Vedemmo la carovana salire e poi l’ansia del dirupo: il vicolo, previsto per il passo degli asini, era stretto in basso, a cucchiaio. I portatori non avevano lo spazio necessario per passare di concerto, mantenendo la stabilità e l’orizzontalità dei trasportati. Era un chiamare, un raccomandare, un nostro piagnucolio ad ogni ondeggiamento. Ci misero un’eternità e finalmente furono oltre e li raggiungemmo anche noi sul piano di S. Sostene dove facemmo tappa e colazione.

Poi giungemmo al Bosco dove erano già arrivati gli asini con i bagagli. Mentre si scaricava,  Gino andò dai “Piruni” a chiedere un carico d’acqua.

Al Bosco, allora, non c’era né luce elettrica, né acqua potabile: per la prima si suppliva con candele e lumi a petrolio; l’altra la portavano gli asini, freschissima, dentro i barili. I Piruni limitavano con la vigna di nonna.

Noi nell’ultima misarta avevamo una pirarella che faceva dei frutti molto dolci, gialli da una parte e rossi dall’altra. A neanche dieci metri di distanza, senza alcun ostacolo divisorio, nella vigna dei Piruni c’era un altro pero di qualità diversa. Entrarono – credo – nel nostro DNA di tutta la vasta nipotanza le continue, insistenti raccomandazioni di mia nonna a non toccare le pere dei Piruni. Per anni, quando gli Insegnanti di Religione e di Catechismo mi narravano del Paradiso Terrestre, io associavo l’albero dei Piruni al melo fatale.

Ci sistemammo nelle due casette: la tribù dei Gonzales e mezza Cruciani giù coi bisnonni, gli altri nella casetta delle due querce.

Il Bosco è un altipiano, detto così perché anticamente era appunto un querceto. Gli alberi poi vennero man mano estirpati per far posto alle vigne: ogni vigna una casetta. Era abitato soltanto d’estate e fino alla vendemmia e naturalmente quella ventina di famiglie boscolane formavano una comunità molto stretta. Gli approvvigionamenti venivano assicurati o dai corrieri che andavano e venivano a piedi quasi ogni giorno o da asinai con le gerle. Io non ricordo ristrettezze di guerra, fame o sacrifici: eravamo un esercito eppure non ci mancò niente.

Una sera sentimmo i bombardamenti. I grandi si alzarono concitati, al buio, guai a far luce che portasse su di noi i bombardieri americani. Ci mettemmo a correre per la stradella – jhumara (fiumara) che era allora la via centrale, bassa e incassata. Sentii che andavamo a ripararci nella casa dei Fusco “che era di pietra”, mentre le altre erano di mattoni e fango. Così quasi ogni notte scappavamo dai Fusco. Sentii parlottare gli uomini: stavano decidendo di costruire una trincea, in caso di sbarco alleato o di mitragliamenti. Si misero con le pale alternandosi Gino, mio padre, Cruciani e Gonzales: distrussero una misarta di vigna e produssero un buco informe e sgraziato che rimase lì inutilizzato per anni.

Un giorno Gonzales e mio padre decisero di scendere a Roccella, sia per compere, sia per sentire il comunicato dalla radio del Dopolavoro dei Ferrovieri. Andai con loro. La guerra non andava punto bene, li sentii commentare, malgrado la retorica altisonante dei commentatori: l’Africa era perduta, fermi e sconfitti in Albania, Grecia e Jugoslavia; Malta ancora una spina nel centro del Mediterraneo. Rientrammo.

Dopo il Purgatorio decidemmo di fare un salto alla fonte di Carìa per rinfrescarci. Da qui vedemmo un duello intrapreso tra Roccella e Caulonia dal Treno Armato e due caccia Mustangs. I due aerei attaccavano pigramente a turno e per farlo dovevano attuare delle larghe virate che quasi ci lambivano sopra. Noi, per non esporci sulla strada nuda, decidemmo di arrampicarci sulla collina e da qui guadagnare il pianoro di S. Sostene. Eravamo abbarbicati alla roccia quando uno dei piloti ci vide, ci puntò contro e lasciò partire una sventagliata di mitraglia. Per fortuna che dovette preoccuparsi più della cresta della collina che della mira: i proiettili finirono vicini ma alti.

Dalla paura ci rintanammo in un roveto e non ci muovemmo di lì se non a notte. Sapemmo in seguito che quel giorno fu ucciso un povero ragazzo, Umberto Portari, che era andato a Melissari a raccogliere erbe e un contadino che tornava sul suo carro carico di fieno. Certamente l’eroico pilota di questa bravata si sarà gloriato a sera nel bar degli hangar, a Malta o a Tunisi: ancora due tacche sulla sua colt da Gary Cooper.

In una tenuta vicina abitava Alberto Misuraca, coetaneo, rissoso e ribelle a Roccella ma qui al Bosco conciliante e disponibile. Stavamo spesso assieme io, lui, Toto e Corrado. Un giorno venne a chiamarci eccitato: aveva stanato una serpe lattareja (Serpe che si diceva entrasse in bocca ai neonati per succhiare il latte) in un rovo e voleva che l’aiutassimo a ucciderla. Corremmo. Il rovo era isolato, quindi la bestia non aveva possibilità di fuga. Circondammo il rovo e attendemmo armati di bastoni che uscisse, mentre Alberto rovistava col suo per impaurirla. Niente da fare: o si sentiva sicura nella sua tana oppure aveva paura. Dopo un’ora Alberto si arrabbiò:

− Ah non voi u nesci? E mo’ ti conzo eu!  − (Ah, non vuoi uscire? Allora ti aggiusto io! )

Salì a casa e tornò con una scatola di fiammiferi. Ci incaricò di raccogliere rami e foglie secche. Capimmo le intenzioni e ci prodigammo eccitati. Era estate e non pioveva da almeno quattro mesi. Quando fummo pronti, Alberto accese un foglio di giornale e lo ficcò sotto le esche, sottovento. Le frasche presero fuoco, noi attorno per accogliere la malcapitata se fosse uscita. Alberto caricava frasche e jinestrare (Ginestre). A un certo punto le fiamme si alzarono alte: sopra il falò c’era un ulivo coi rami cascanti, accese come un fiammifero; intanto il fuoco, accendendo le erbe secche, si stava propagando nella sterpaglia. Ne fummo terrorizzati, ci mettemmo a gridare, accorse gente con le pale, picconi, sacchi e cominciarono a gettar sabbia sulle fiamme. Per un po’ la lotta fu incerta ma poi, man mano, arrivò altra gente e l’incendio fu vinto prima che distruggesse tutto il Bosco.

In una delle nostre scorribande, giù, sul piano della casa dei nonni, vedemmo Gino  e  Vittorio,  il cugino di Alberto, che guardavano qualcosa col binocolo.

Ci avvicinammo curiosi e ci lasciarono vedere anche a noi.  Il Bosco declinava lì fino alla distante vallata dell’Amusa. Dall’altra parte si ergevano i contrafforti rocciosi su cui sorge la fascinosa sagoma di Caulonia. Qui si apriva una grotta, palesemente abitata. Vi si era rifugiato, per paura dei bombardamenti, Don Alfredo Capitanio, il fratello delle mie due coinquiline. Noi lo conoscevamo già perché faceva lo spedizioniere e aveva l’ufficio di fronte alla piazzetta. Ebbe una quantità di cani, ai quali voleva un bene pazzo: presto i suoi cani divenivano anche i nostri. Avevano di solito vita breve, a causa delle macchine. Ora era là, imbarbarito, con una canna in mano come un Giovanni Battista nel deserto.

Il tempo si stava guastando: dalla montagna si ammassavano neri nuvoloni minacciosi; il vento era diventato più fresco e si vedeva lampeggiare lontano. Tornammo a casa.

Nel pomeriggio arrivò il temporale, violento come tutti i temporali estivi. La stradella del Bosco divenne fiumara e non potemmo mettere neanche il naso fuori. Al mattino la notizia. Un fulmine aveva colpito una ragazza a Cioni: la poveretta, Tara d’u Cavulognisi (Teresa, figlia del Cauloniate), sorpresa con le caprette dalla tempesta, si era rifugiata sotto una quercia. Qui l’aveva colpita il fulmine: bruciata, fatta carbone, povaricchja (poveretta). Corremmo a Cioni. Vedemmo la quercia. Gente, a crocchio, guardava allibita. La quercia era stata decapitata alla biforcazione; un ramo, grosso quanto il petto di un uomo, giaceva bruciacchiato a terra.

− Ecco − Spiegava uno − il fulmine è venuto dritto dall’alto, ha colpito il ramo e poi il tronco, qui − E indicava l’enorme ferita nera. Un altro, evidentemente tra i primi accorsi, aggiungeva particolari raccapriccianti. Le caprette, terrorizzate, si erano disperse.

. Gruppi di volontari, lontani, le cercavano, spersi su per le balze della montagna. L’eco, indifferente, ne rimandava le voci.

Poi portò la notizia, di mattina presto, il ragazzo del pane: gli Alleati erano sbarcati in Sicilia!

La novità causò enorme scalpore: i grandi la commentavano agitati.

Dopo qualche giorno, era arrivato l’asino con i barili dell’acqua, e tutti aspettavamo lo scarico, accalcati attorno con i bicchieri in mano. L’arrivo dell’acqua nuova era un avvenimento atteso e importante. Il rifornimento durava mediamente una settimana e negli ultimi giorni d’estate, l’acqua diventava torbida e sgradevole. Eravamo lì in attesa, quando sentimmo un vociare, un chiamare giù, sull’aia dei nonni. Ci appostammo tutti sul sentiero e vedemmo in fondo Aldo Paganica e Nino Agostino, giovanotti, che avanzavano sventolando grandi drappi bianchi:

− L’Armistizio! Abbiamo fatto l’Armistizio! −

Tutti saltavano e gridavano esultanti: è finita la guerra!

Lo feci anch’io, d’istinto. Mi girai a guardare mio padre: solo, in mezzo a quel tripudio, a capo chino, composto, piangeva. Grosse lacrime gli scendevano sulle guance, oscillavano sul mento e cadevano a terra, né lui pensava a detergerle. Erano lacrime di rimorso per aver appoggiato, seppur nel suo piccolo, un regime cieco e totalitario? O erano lacrime di dolore per una sciagurata avventura, sognata vittoriosa e che si concludeva così ingloriosamente? Oppure erano intime lacrime liberatorie per la fine d’un tanto massacro? Non glielo chiesi mai. Forse era un po’ delle tre cose insieme.

Ormai non c’era più motivo di rimanere al Bosco: a Roccella urgevano altre priorità, così affrettammo la vendemmia e rientrammo a casa.

*    *    *

E il Bosco Catalano? Successero vicende degne di essere raccontate. Mia nonna dovette venderlo, non potendo altrimenti mantenere il figlio Gino al Politecnico e lo rilevò il fratello Gildo che già aveva riscattato dai fratelli la parte del padre (u Pitturi). Gildo lo girò alla figlia Liliana, come regalo di nozze.

Come ben si ricorderà, la proprietà limitava con quella  dei Pirune. Uno di questi, condannato a venti anni di carcere per omicidio, era stato rilasciato dopo appena sedici per buona condotta. Viveva al Bosco, unico abitante fisso, isolato e malevolo. Covava dentro di sé il rancoroso ricordo del processo.

Egli, per l’arringa, non ritenendo abbastanza capace l’avvocato locale, che lo aveva seguito per tutto l’iter processuale, si affidò a un luminare di Napoli. Questi, senza aver studiato le carte, calò in Calabria credendo di ubriacare la Corte con la sua retorica altisonante e le sue dotte citazioni latine, col risultato che la Corte rigettò le sue tesi e condannò l’imputato al massimo della pena (negando addirittura l’attenuante della provocazione grave e la legittima difesa).

Questo era l’uomo col quale mia cugina Liliana attaccò lite.

Ella aveva alzato sul limite una rete divisoria. Il Pirune sosteneva che gli erano stati rubati venti centimetri di vigna. Mia cugina, incautamente sprezzante, invitava il richiedente a denunciarla, ben sapendosi protetta dal padre, dal fratello e dalla sorella avvocati. Finché un giorno, all’arrivo di lei che con un’amica aveva portato due operai a lavorare nella vigna, il Piruni, determinato e glaciale, afferrò il due canne e a passi misurati le si diresse incontro. Capì lei le intenzioni omicide del suo avversario e tentò di guadagnare la macchina, ma il Pirune le sparò il primo colpo alle spalle, poi le si avvicinò lento e le scaricò il secondo in piena faccia. Ricaricò con calma e disse  agli operai esterrefatti: −  Non  vi  moviti  i  ‘nu  millimetru,  sinnò  ‘ndavi  puru  pe’ vui!  − (Non vi muovete di un millimetro, altrimenti ce n’è pure per voi! ).

L’amica era scappata terrorizzata e si era nascosta sotto un muro a secco. Senza una parola il Pirune le scaricò dall’alto entrambi i colpi della doppietta. Da allora nessuno dei figli o dei nipoti ha messo più piede in quella proprietà maledetta: i tetti crollati, le erbacce e i rovi non più tagliati: un buco nero in mezzo alle linde casette del Bosco.

 

 

 

A MAZZICANA (LA GROSSA PIETRA) (1° CAMPEGGIO)-CAPITOLO 4

Quando mi assegnarono la prima scuola, mi toccò una Popolare. Dovevo io trovare un locale, provvederlo di sedie, attrezzarlo e cercare anche gli alunni, cioè degli adulti che volessero alfabetizzarsi, per lo più vecchietti pensionati.

Fittai un magazzino in via Orlando, quasi di fronte alla chiesetta di S. Antonio. A lato della chiesa avevamo il Club, per l’esattezza il Club Clandestino. Era di proprietà di Peppe Testerrè (Testerrè: Giuseppe Lombardo. Era detto così perché, dicevano, somigliasse a un re delle carte) e lo frequentavamo in tanti per ascoltare musica e imparare a ballare, così, maschi con maschi specialmente il rock. Valerio provvedeva ai dischi.

Eravamo alla fine degli anni ’50 e ogni giorno uscivano nuovi capolavori: Platters, Pat Boone, Paul Anka e poi anche Mina, la Caselli, Celentano, Fidenco… Valerio passava tra i ballerini, faceva la questua e comprava il disco nuovo.

Di questi Clubs a Roccella ce n’erano tre: il nostro, che fu il primo, poi c’era il Montparnasse di Nicolino ‘i Maraciciglia e il Club d’u Burgu.

Quando cominciarono a correre i primi stipendi (27.000 lire), mi sentii ricco. Finalmente potevo comprare la cosa che più agognavo: una tenda da campeggio.

Io e Testerrè, che eravamo talmente fraterni da tenere cassa comune, unimmo le nostre ricchezze e partimmo per Reggio con l’intento di comprare non soltanto la tenda, ma anche una serie di accessori necessari. All’uopo avevamo una lista abbastanza circostanziata.

Ci portammo a Piazza De Nava dove era fiorente il mercato dell’usato e di residuati militari e comprammo subito due grossi zaini, quasi due casse, in uso nella Marina Militare.

Circa la tenda non avemmo grandi possibilità di scelta: c’era una capannina, troppo grande e pesante e un’altra a quattro posti, con paleria in legno rinforzata con cilindri di ferro, naturalmente grigioverde, alta un metro e cinquanta, ampia abside per i bagagli, suolo impermeabilizzato, pentagonale con la punta in alto. Sull’esterno, a 40 cm dal suolo, correva un’aletta tendendo la quale con gli appositi tiranti, si otteneva la massima ampiezza.

− Abbiamo una casa! −

Esultammo abbracciandoci, appena concluso l’affare.

Comprammo ancora due sacchi a pelo, un cucinino a spirito, una valigetta da pic-nic con dentro  sistemati piatti, bicchieri, posate in alluminio, un lume a gas e una lanterna per l’esterno, una paletta pieghevole e due pile per l’interno e altre cosucce.

Primo campeggio sperimentale a Salìce, amena località con sorgente sulle colline roccellesi, alla luna di luglio. All’avvicinarsi della data fatidica la nostra lista diventava sempre più preoccupante: sul tavolo del Club era ammucchiata una enorme quantità di materiale. Salice era in collina, lontano dal paese, isolata e raggiungibile soltanto a piedi o a dorso di asino. Non avendo l’asino, con tutto il bagaglio, si prospettava una bella scarpinata.

Alla vigilia ci mettemmo a insaccare gli zaini: ogni assegnazione era un litigio, per via del peso. A me sembravano pesanti tutte le cose che andavano nel mio zaino e per converso ridicolmente leggere  quelle proposte per lo zaino di Peppe: a me la spiritera, a lui i pioli della tenda; a me i sacchi a pelo, a lui le coperte; a me pane e pasta, a lui le buatte di pomodoro… Eravamo sfiniti, iracondi e insoddisfatti. Io ero convinto di essere stato turlupinato: Peppe era grosso e tarchiato, io fui sempre piccolo e mingherlino e quell’armadio dietro le spalle mi impauriva; c’erano da fare tre Km di salita e non tutto il materiale era entrato negli zaini. Avremmo dovuto anche sobbarcarci due borse a mano, ciascuno. Comunque, verso le dieci avevamo finito; ci salutammo con l’intento di alzarci presto l’indomani,  molto  prima  dell’alba:  il  primo  avrebbe chiamato il secondo col solito fischio. E così ci lasciammo. Lui prese per Zirgone, io verso la Stazione.

Arrivato al palazzo di mia nonna (u palazzu ‘mericanu), all’angolo dove c’era la bettola dei pescatori di mastro Tobia, notai una bella pietra bianca levigata, tonda e invitante ai raggi della luna che luccicava suadente sulle scaglie di mica. Era una màzzara, cioè un peso che mastro Tobia utilizzava per pressare le alici. Sogghignai diabolico; sollevai la pietra mazzicana (si dice così di qualsiasi pietra che non può essere presa con una mano sola) e ritornai sui miei passi. Riaprii il Club, accesi la luce e perpetrai il mio misfatto senza rimorsi e senza ripensamenti. Aprii lo zaino di Peppe, spostai qualcosa e vi piazzai la mazzicana, nascondendola bene e cancellando ogni traccia dell’operazione. Finalmente andai a dormire.

Verso le quattro di mattina echeggiò il “fifio” di Peppe. Mi alzai perfettamente sveglio, mi sciacquai piano per non svegliare i miei e scesi. Prendemmo il caffè al bar della stazione, arrivammo al Club, ci caricammo come somari e partimmo. Ci dirigemmo verso Zirgone e da qui alla Grazia. Il peso era immane e le cinghie stringevano sulle clavicole, né potevamo aggiustarle o spostarle per via delle borse che avevamo alle mani.

Dalla Grazia, saltellando tra le pietre dell’alto Zirgone, arrivammo alla Carcinara. Ogni passo era una pena. Dove la strada saliva dovevamo procedere curvi in avanti per evitare che il peso ci sbalestrasse indietro. Ad ogni muretto, ad ogni gibbosità delle rocce o tronco ci appoggiavamo cercando di alleviare il peso della nostra soma.

Attaccammo l’interminabile salita del Purgatorio, così detta per la presenza di argille rosse, bellissime. Iniziammo i primi tornanti, lastricati in pietre grezze, con scalini scomodissimi, previsti sul passo degli asini.

Poi il sentiero si inerpicava, su, fino a S. Sostene. Ci fermammo per risistemare le cinghie, ci consultammo se fosse il caso di operare una breve deviazione per ristorarci alla fontana di Carìa, ma decidemmo di continuare prima che il sole fosse più alto. Il calore ci sorprese in cima, appena fuori dal riparo delle rocce, e fu subito un aggiungere fuoco al fuoco. Eravamo a luglio, in piena estate. Cominciammo a sudare, né potevamo pulirci il viso per via delle borse. Il sudore ci penetrava negli occhi e ci bruciava.

Riprendemmo l’estenuante salita sassosa verso la chiesetta di S. Sostene e qui approfittammo del muretto di recinzione per appoggiarvi gli zaini. Restammo così, con le gambe piegate come due crocifissi, gli zaini sul muretto, le borse a terra, ad asciugarci il sudore coi fazzoletti.

− San Sostene, sostenici tu! −

Implorò Peppe con una delle sue freddure.

− Glielo dico adesso? −

Mi interrogai.

− Ma no! Noi tireremo dritto! −

Come ammoniva una famosa frase vergata da qualcuno sul muretto del ponte a Ddu’ Vucchi (A doppia bocca, due uscite).

Ormai le salite erano finite e la strada proseguiva in dolce declivio. Arrivammo a destinazione alle sette. Avevamo camminato per tre ore filate. Camminato? Dovrei dire piuttosto boccheggiato, barcollato. Raggiungemmo la radura in un canalone con in mezzo una magnifica quercia secolare. L’ombra del gigante aveva scoraggiato le piante del sottobosco, specialmente dalla presenza dei roveti.

Qui posammo le borse, sganciammo gli zaini e crollammo a terra stremati. Ripreso fiato, cominciammo a scoprire i danni: strisce rosse e incavate là dove avevano lavorato le cinghie; occhi arrossati e bruciati dal sudore; vesciche ai piedi abituati più alle passeggiate in piazza che non a quei sentieri da capre.

E venne l’ora di aprire gli zaini. Io mi misi prudentemente vicino al sentiero, in eventuale posizione di fuga. Scorremmo le cerniere alla ricerca  dei  pioli  e  della  tenda  e  qui Peppe crollò a terra. Io aspettavo tremebondo la sua reazione.

− Franchicè , si ‘ndavia u ndaju ancora ‘nu grammu ‘i forza, t’ammazzava! − (Francuccio, se avessi avuto ancora un grammo di forza, ti avrei ammazzato!)

Aveva accettato lo scherzo. Questo avevamo di bello in quel periodo ancora mondo dalla schiavitù televisiva e nel quale il divertimento dovevamo cercarcelo da soli, specialmente ideando  burle e beffe, anche pesanti. Ora anche lui sorrideva sornione, apprezzando e magari “tessendo insidie alla vedova d’Edoardo”.

A pace fatta, mi offrii di andare all’acqua. Presi la tanica e arrivai alla fonte che era al di là della strada, in una conca erbosa ricca di salici e querce secolari. L’acqua sgorgava pura e fresca dalla roccia viva. Qualcuno aveva sistemato una ciaramida (Tegola) in modo che il prezioso liquido potesse essere attinto più facilmente; sotto avevano posto delle pietre piatte. Bevvi avidamente, mi sciacquai mani, braccia, collo e gambe, riempii la tanica e la portai a Peppe, aiutandolo a rinfrescarsi a sua volta. Mangiammo qualcosa di freddo: pane, tonno e, per frutta, pomidoro. In mia assenza Peppe aveva recuperato i materassini gonfiabili; li preparammo; ci sistemammo ai piedi della quercia e dormimmo qualche ora.

Riposati, tornammo alla sorgente, ci rinfrescammo ancora una volta perché la giornata era veramente calda, e quindi iniziammo  ad armare il campo. Montammo la tenda dopo aver pianeggiato il terreno con la paletta pieghevole e sistemato un suolo morbido e isolante di foglie secche e la preparammo per la notte; appendemmo le provviste a riparo di formiche e animali, isolandole con corde e ganci ai rami della quercia. Peppe, che aveva fatto il falegname, si era portato qualche attrezzo e quindi, mentre io selezionavo e sistemavo delle pietre piatte, lui con l’ascia preparò dei tronchetti ottenendo così un comodo ripiano per il cucinino. Io tornai all’acqua mentre lui tagliava delle canne, le appuntiva e le ficcava a terra:  l’acqua serviva ad ammorbidire il terreno. Quando rientrai aveva armato una specie di cavalletto sul quale aveva appeso in bell’ordine tutto il pentolame. Io intanto tendevo una corda per il bucato, poi, anche per farmi emendare lo scherzo, mi offrii di riandare all’acqua e poi preparare gli spaghetti per il pranzo. Così lo spedii in relax coi suoi polizieschi su uno scoglio piatto, al fresco.

Mi misi a preparare il sugo e intanto sistemavo altre cose: la lanterna e il lume per la notte, le pile nelle tasche della tenda; sale, olio, aceto, origano in una nicchia che avevo allargata nella parete di arenaria. La spiritera, purtroppo, aveva un solo fuoco. Finito che ebbi il sugo, tutta la conca si riempì di un allettante profumino. Lo sistemai su una pietra e misi a bollire l’acqua. Mi accorsi con disappunto che il sugo era stato apprezzato da altre creaturine presenti in zona: formiche, babalucci (Moscerini), farfalle, mosche e dietro ad esse lucertole e ramarri. Non avevamo portato i coperchi, quindi mi consultai con Peppe il Pragmatico, quello che aveva una soluzione per ogni esigenza.

− E tu mèttinci ‘na pitta ‘i ficandianara pe’ cupèrchju! − (E tu utilizza una “pitta” di ficodindia per coperchio! )

E tornò a Perry Mason. Io feci come lui mi aveva consigliato: tagliai una bella pitta piatta, la liberai dalle spine e la sistemai sul bordo, calcandola bene. Poi mi dedicai agli spaghetti.

Quando furono cotti a puntino, li scolai e stavo per condirli nella casseruola. Qui nacque una querelle accanitissima col redivivo Peppe: lui sosteneva che dovevamo fare due parti, una del sugo e una degli spaghetti (Peppe mangiava poca pasta e la voleva conditissima) io obiettavo che doveva essere condita prima e poi divisa. Lui sosteneva che la pasta è altra cosa dal sugo, tant’è che viene preparata in pentole diverse; io obiettavo con non minore enfasi che il progetto condiviso da entrambi era quello di mangiare  spaghetti  al  sugo, non spaghetti − punto − sugo. Lasciammo in sospeso la questione, che rimane ancora insoluta e sub judice da più di otto lustri, e ci mettemmo a mangiare.

Apriti cielo! La pitta, al calore del sugo, si era liquefatta all’interno e la salsa era diventata più amara del tossico.

− E’ amara? − Bofonchiò Peppe

− E nui a ‘nducimu c’u zùccheru! − (E noi l’addolciremo con lo zucchero! )

Così facemmo e terminammo il nostro primo pasto che già imbruniva. Lavammo insieme le stoviglie alla fonte e ci preparammo per la notte. Dentro la tenda, nel chiuso di quella cattedrale gotica, ci sentivamo liberi e felici. Leggiucchiammo qualcosa alla luce delle pile, lui i Gialli, io i Romanzi di Urania.

Fu a questo punto che sentimmo fuori uno gnaulio insistente. Aprimmo e trovammo  due  gattini magri, affamati e infreddoliti. Gli demmo gli spaghetti avanzati a Peppe, un po’ di carne in scatola e li accogliemmo nel tepore della tenda. Al mattino ci accorgemmo che erano pieni di pulci.

− Chisti non sunnu gatti ch’i pùlici, ma pùlici ch’i gatti! − (Questi non sono gatti con le pulci, ma pulci con i gatti)

Li disinfestammo con dell’insetticida in polvere e poi svuotammo la tenda e facemmo altrettanto. Facemmo colazione con pane e marmellata, anche Minima e Semiminima, come li avevamo battezzati, e andammo all’acqua a lavarci e sbarbarci. La sorgente limitava con la strada che correva un paio di metri più in alto; imponente si ergeva la montagna mozza di S. Onofrio. Tutto attorno un fitto canneto fino a una fila di calanchi. Peppe, guardando meglio, mi prese un braccio. Giù, oltre il canneto, c’era uno stagno. Ci aprimmo un sentiero fra le canne e raggiungemmo l’acqua. Evidentemente il Salìce scorreva fra le canne e, avendo incontrata lungo il suo corso la zona argillosa, aveva formato quella meraviglia. Lo stagno era largo una ventina di metri e lungo una cinquantina; acqua verde, giunchi sulle rive,  libellule  verdi, azzurre, rosse e gracidare le rane.

Il campo di Salìce – Francuccio prepara gli spaghetti

il campo

Ci guardammo ammiccanti e giù nell’acqua. Nuotammo e guazzammo per un paio d’ore, imbrattandoci anche con le melme fangose del fondo.

Nel pomeriggio esplorammo il canalone dove ci eravamo accampati e scoprimmo una grotticella con davanti una sabbia bianca, finissima. Lì il torrente, ora a secco, quando veniva alimentato dalle piogge, faceva cascata, depositando la sabbia. Il sito era fresco in quanto incassato da tre lati dalle rocce che si restringevano; sopra era alberato in maniera che la vegetazione formava una specie di cupola arborea: un ottimo luogo per le letture pomeridiane.

Il giorno dopo cominciò il traffico. A Roccella era la festa delle Grazie e mercoledì, giovedì e venerdì c’era la fiera del bestiame. La avevamo vista e subita per diversi anni, subita perché eravamo costretti a cambiare la nostra zona balneare a causa della polvere, del puzzo e degli escrementi che rimanevano in spiaggia per settimane, finché non si sfaldavano al sole o qualche mareggiata non ripuliva la spiaggia. C’era poi anche il pericolo delle zecche. Mai ci eravamo chiesti da dove arrivavano tutte quelle bestie e quei tamarri (mandriani) accaldati. Ora lo sapevamo.

Ci eravamo accampati sulla via Dromo, la mitica pista neolitica usata già dagli allevatori nomadi. Questa è visibile a Siderno (la circonvallazione alta) dove mantiene ancora questo nome; è riscontrabile a Gioiosa Marina (la strada interna di Porticato, Spìlinga,  Ligonia e Romanò):  qui  si  biforca parte per Camocelli, Junchi e Prisdarello e il braccio costiero lo si ritrova a Serulline e poi come strada della Pietà. A Roccella continua come via del Borgo e si interna fino al Bosco Catalano. Prima, però, all’altezza di S. Sostene, scende verso Sàlice e prosegue calando verso Amusa, poi risale a Caulonia Superiore, toccando le sue innumerevoli, pittoresche contrade: Ursini, Galatria, Campoli, Cerasara, Agromastelli, su su, fino ai Piani della Ziia e da qui scende verso  il Tirreno,  spartendosi prima

in mille rivoli verso la Fabrizia, Ferdinandea, Mongiana. Da tutte queste contrade, già prima dell’alba, in una nuvola di polvere perpetuamente rinnovata, centinaia e centinaia di mucche, asini, cavalli, buoi, pecore e capre erano portate alla fiera. Noi eravamo accampati abbastanza in profondità nel canalone per non soffrire la polvere, ma il chiasso sì.

− Tè Joculana! −

− Teccà Russeja! −

E improperi, bestemmie e pietrate: ragli, muggiti, belati e nitriti. Molti si fermavano alla fontana, assetati, sudati e pieni di polvere. Noi ci provvedemmo di una buona riserva di the ed esponemmo un cartello: CAMPEGGIO – ZONA DI SILENZIO − SE GRADITE UNA TAZZA DI THE, CHIAMATE. Furono in molti a chiamare e usufruire della nostra ospitalità.

Così incontrai Cata i Gozza (Gozza: contrada interna di Caulonia dove aveva insegnato mio padre da giovane) e Michele, suo figlio, che, a dorso di ciuco, andavano alla fiera a vendere capre e galline. Lei era una donnetta minuscola, con una strana voce nasale e parlava cu’ ‘ngùsciu (Con tono lamentoso), come tutti i cavulognisi (Abitanti di Caulonia); era stata alunna di mio padre a Gozza e durante la guerra veniva a Roccella per barattare generi alimentari (olio, uova, pollame, pizzate…) con filo, aghi, vestiti pesanti, scarpe usate e specialmente sale. In queste occasioni dormiva da noi, su un materasso buttato per terra. Il figlio Michele, aveva circa quattordici anni e non lo conoscevo. Cata ci lasciò una corona di cipolle e dei pomidoro freschi. Mi chiese anche se mi serviva qualcosa da casa ché il figlio doveva rientrare la sera stessa. Io scrissi una lettera a Valerio pregandolo di mandarci la radio “Geloso” a transistors. Non avevamo potuto portarla con noi per il peso e l’ingombro: erano le prime e ancora i Giapponesi non avevano iniziato le loro fortunate miniaturizzazioni. Ora potevamo permetterci qualsiasi peso in quanto Michele sarebbe passato ogni giorno, col somaro e le gerle quasi vuote e si era offerto di portarci i bagagli.

Llallera!

Testerrè e Francuccio

testarre

La sera stessa avemmo la radio e le batterie di riserva. L’accendemmo e si sentiva una delizia: la conca faceva da cassa di risonanza e quella musica inondava il Dromo fino alla fontana. La sera tirammo a tardi ad ascoltare il Notturno dall’Italia. Il giorno dopo si moltiplicarono le visite. Nessuno resisteva alla forza attrattiva di quella musica in quelle varranche (Zone aspre e solitarie), specialmente i più giovani, quelli che scendevano per la prima volta alla fiera, venendo dalle loro contrade isolate, prive di acqua corrente e di elettricità. Presto avrebbero avuto il loro battesimo del XX secolo: le automobili, il treno, i bar, le bancarelle con le loro meraviglie, il gelato, per molti il mare. Ecco, noi anticipavamo questo contatto di iniziazione alla civiltà. Si sedevano immobili, ipnotizzati da quella scatola che parlava come loro, quelle musiche… A un tratto uno di essi si mise a gridare, tremante eccitato: − Mi chjamau! Mi chjama! Sapi u nomi meu! − (Mi ha chiamato! Mi ha chiamato! Conosce il mio nome! ) Non ci capacitavamo, poi capimmo. Il ragazzo di cognome andava Pugliese e il cronista del notiziario aveva usato quell’aggettivo in ben altro contesto.

Del resto, aneddoti sui tamarri, veri o inventati, ne circolavano a josa: chi si era messo in tasca i gelati restituendo, candido, il cono al barista: − Ccà, ripigghjàtivi a fasceda − (Riprendetevi la “fasceda”− (contenitore in vimini delle ricotte) come si fa con le ricotte. Un altro avrebbe legato una capra alla sbarra del passaggio a livello abbassato, poi era entrato nel bar a farsi una birra. A un tratto belati altissimi: la sbarra si sollevava e la povera bestia pencolante in aria, quasi strozzata….

Decidemmo di rientrare la mattina di sabato e così concordammo con Michele. Ormai avevamo raggiunto lo scopo di questo primo campo, cioè provare le attrezzature. Intanto progettavamo di organizzarne un altro per il  mese  prossimo, alla luna di agosto, stavolta con quattro persone, a Copanello, sulla scogliera: eravamo entrambi pescatori subacquei, avremmo prospettato la cosa a Peppe Fraddeco Falcone e un altro, a scelta tra Pippo Favoino e Nino Chiefari, detto a Geisha perche tagliava le maniche alle camicie, ricavandone una specie di camiciotto.

I gattini sparivano di giorno; evidentemente avevano una madre e una tana da qualche parte, ma non la vedemmo mai; la sera tornavano puntuali. Passammo i giorni seguenti a mettere a fuoco il progetto per il nuovo campeggio, a bagnarci nel laghetto, a leggere, a fare vita da campo.

Il venerdì pomeriggio andai con il libro (Assurdo Universo di Frederic Brown) alla mia suite di sabbia ma trovai, proprio al centro, la fatta voluminosa di Peppe.  Moscerini e mosche verdi vi banchettavano sopra. Peppe era solito a queste prodezze: quando trovava un luogo particolarmente ameno, si sentiva il pressante e insopprimibile bisogno di marcarlo così, non per dispregio, ma per onorarlo, così come i Neandhertal mangiavano il nemico ucciso. Mi feci una bestia. Gli gridai che se fosse andato in Egitto avrebbe scalato la grande piramide solo per il piacere di defecarvi sopra. Tempo e fiato sprecati.

Smontammo il campo, tutto tranne la tenda; al mattino levammo anche questa, riempimmo gli zaini e quando arrivò Michele mettemmo tutto nelle gerle e scendemmo a Roccella liberi come due uccellini.

*   *   *

Per i 20 anni di Testerrè (1958)

 

Vorrei donarti porpore di Tiro

e mille, grandi talentoni d’oro,

e tripodi e crateri luccicanti,

artistic’opra di dedalea mano,

e d’unguenti cospargerti d’Assiria,

misti al sentor di profumati incensi,

− Non senza − come dice il Veronese (*) − Catullo

una puella candida che danzi

al suon dell’arpa, ingentilendo il core… −

Accetta invece questa mia fatica

Di rime rubacchiate a questo o quello:

sì gracchia il corvo e l’usignolo canta,

com’io scriver vorrei….e invece scrivo.

 

Il Castello oggi

il castello